#10 Incorporare l'obsolescenza
Le nicchie del web, l'iper-segmentazione del mercato e i futuri frammentati
Come tutti quelli che, eroicamente, hanno fatto del rifiuto categorico del pagamento di servizi di streaming musicale una parte imprescindibile della propria identità, anche io mi ritrovo ogni giorno ad assimilare involontariamente una quantità imbarazzante di messaggi pubblicitari.
Mi va bene così, in qualità di attrice del mercato libero è una mia scelta quella di sorbirmi almeno mezz’ora di advertising al giorno pur di non pagare un servizio, così come ho imparato ad accettare il castigo di ascoltare praticamente solo le stesse cinquanta canzoni, riorganizzate e camuffate ciclicamente dall’algoritmo, in decine di playlist che di diverso hanno solo il titolo. Ovviamente, la faccenda ha anche i suoi lati positivi: ad esempio, la ridondanza delle raccomandazioni codificate mi ha aiutato a posizionarmi nell’esclusivo 1% di ascoltatori più accaniti di Elliott Smith, mentre l’assimilazione incondizionata di spot mi ha permesso di acquisire uno sguardo attento sulle ultime tendenze dell’advertising, un vantaggio competitivo che – tra l’altro – sostiene il mio status tra la fandom di Smith, alimentando ogni giorno il bisogno di rifugiarmi in quell’1% che vive la vita con Roman Candle nelle orecchie.
In ogni caso, quando non sono persa nelle note di No Name #2 o No Name #4, ascolto attentamente tutti gli spot che mi propina Spotify.
Uno dei più popolari, ad esempio, pubblicizza un’app per la produzione di musica trap che ti aiuta a creare la tua hit semplicemente aggiungendo «un riverbero al latrato di un cane», ma sono gettonatissime anche le sponsorizzate sulle playlist di rumore bianco per sole mamme, gli spot di assorbenti per donne forti che sanno dire di no in tutte le lingue romanze e una campagna promozionale che annuncia l’arrivo di un nuovo servizio di taxi su Roma, facendo parlare gli attori come due romani non parlerebbero mai, neanche sotto tortura (ciao copywriter del Nord!). Tralasciando i latrati e i daje gratuiti, una caratteristica impressionante di questi spot, è la loro ambizione a una segmentazione quasi perfetta del target. Ogni pubblicità taglia con il coltello il vasto magma dell’utenza di Spotify, rivolgendosi a coorti precisissime o, come preferiscono dire le piattaforme ultimamente, a micro-community, nicchie d’identità e d’interesse che oggi rappresentano la principale frontiera su cui si sta giocando la battaglia per la conquista dell’attenzione online.
Un articolo pubblicato sul Washington Post parla di nimcel per descrivere il crescente fenomeno delle niche internet micro celebrity, utenti che, pur non essendo famosi in senso assoluto, rappresentano figure di particolare rilievo all’interno di una specifica community online:
«TikTok and YouTube stars chasing fame in Hollywood or joining content houses are not niche internet micro celebrities. But a meme account admin, hyper local Twitter personality, founder of a popular Discord server or random guy who has gone viral for being repeatedly featured on a popular Instagram account would be.»
Le micro celebrity delle nicchie sono quanto di più autentico si possa trovare oggi sulle piattaforme di social media: veicolano e alimentano l’identità di piccoli gruppi di utenti, raccolgono le persone attorno a un interesse specifico, confezionano contenuti e inside-joke ritagliati per intrattenere un minuscolo club di individui, il più delle volte, senza guadagnarci nulla. Rappresentano l’evoluzione delle vine star, dei tumblr famous e delle bloglebrity ma, soprattutto, sono considerate l’antidoto contro i decadenti influencer, ormai screditati perché corrotti dal capitale, e gli anonimi creator, la cui identità troppo fumosa non ispira alcun senso di immedesimazione.
Più di tutto, le micro celebrity delle nicchie sono preziose ambasciatrici dell’iper-segmentazione: il loro successo aiuta a intercettare i gusti, gli interessi e i comportamenti di quell’utenza sempre più incontrollabile e frammentata che si raccoglie attorno alle community online, iper-nicchie concepite nel grembo di TikTok, di cui tutti, nel mondo del marketing e dei servizi digitali, cercano di emulare il linguaggio.
Spotify, ad esempio, ha da poco lanciato i Niche Mixes, una versione aggiornata delle playlist già offerte dall’app, dove il concetto di personalizzazione viene portato all’estremo. Lo dimostra lo screenshot di un utente, che ha condiviso alcuni dei titoli più brillanti proposti dall’algoritmo. È difficile scegliere i migliori, ma Fast Clown Music, Anti Anxiety Dogs e Angry Tuna mi hanno strappato una lacrima.
Anche il mondo delle app di dating pullula di nicchie: Dig per gli amanti dei cani, Veggly per i vegani, NUit per i veri appassionati di astrologia, e la lista potrebbe andare avanti all’infinito. Lo stesso avviene nell’ambito dell’editoria online, dove i grandi gruppi spacchettano la propria offerta in tanti sottoprodotti, ognuno indirizzato a una nicchia d’interesse diversa: è il caso di New York Media, che produce The Cut, Vulture, Intelligencer e molti altri, o di Vox Media, con i suoi The Verge, Eater e, ovviamente, Vox. Ma per comprendere veramente l’impatto delle nicchie sul mondo online, bisogna andare a leggere gli ultimi report di trend forecasting, documenti a cavallo tra l’etnografia digitale e la divinazione commerciale che, proprio per questo, si rivelano sempre preziose testimonianze dell’epoca in cui viviamo.
What’s Next - Trend Report 2023 prodotto da TikTok, ad esempio, parla esplicitamente dell’importanza delle nicchie, precisando subito il ruolo di TikTok come collettore di quelli che nel documento vengono definiti “piccoli club”:
«TikTok is not a town hall meeting. It's a collection of tiny clubs where people can find new ideas on how to explore their passions and live their lives.»
Uno degli studi più interessanti, però, è Fragmented Futures, un report prodotto da We Are Social UK, all’interno del quale vengono raccontati i principali macro-fenomeni che guideranno la rivoluzione social nei prossimi mesi: dalla ricerca online, che sarà sempre più orientata verso vibes e mood, alla disruption dello storytelling, pronto ad abbandonare la linearità per assumere forme disgregate e partecipative, fino al rifiuto di un’identità statica e la ricerca di community e forme di autenticità tutt’altro che ordinarie. Neanche a dirlo, le nicchie sono le (micro) forze propulsive al centro di questa caotica trasfigurazione del web, un movimento decentralizzato che riorganizza linguaggi e indicizzazioni, sovvertendo lo status quo e reinventando le regole della socialità online.
Tra i vari fenomeni documentari nello studio, ce ne sono due che hanno acceso in particolar modo la mia attenzione: il coinvolgimento delle nimcel nelle campagne pubblicitarie dei grandi brand e lo sviluppo di una narrativa, attorno alla pop culture, sempre più orientata verso la disseminazione di easter eggs. Il primo cavalca una dinamica nota, quello dell'endorsement pubblicitario basato su figure sempre più ricercate, e Fragmented Futures lo incapsula efficacemente nel case study della partnership tra Valentino e una niche micro celebrity su TikTok, conosciuta con il nome di “potato girl”. Lo studio spiega:
«Brands can platform niches without worrying about being pigeonholed. Valentino’s recent model was TikTok’s ‘potato girl’, whose authenticity stems from all genres of extreme behaviour: not only is potato fandom niche, but it’s practised with a commitment to weirdness and intensity reminiscent of ‘suburban sensationalism’.»
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Le nicchie non offrono alle aziende solo un’opportunità di mercato (produrre prodotti iper-segmentati) ma anche un nuovo linguaggio (rinominare i propri servizi sfruttando la riconoscibilità del concetto di “nicchia”) e, infine, un gruppo di endorser giovani, sempre diversi e, con ogni probabilità, economicamente più sostenibili di star e influencer consolidati.
Il secondo fenomeno, invece, riguarda il linguaggio e ha a che fare con l’adozione di inside joke, meme e indizi clandestini all’interno delle produzioni culturali mainstream per accendere l’attenzione dei fan, spesso arrivando a fuorviare indirettamente l’audience che, sempre più affamata di easter eggs, diventa preda di allucinazioni investigative. Come racconta questo pezzo pubblicato sul New York Times:
«As the search for clandestine meanings intensifies everywhere, the distinction has collapsed to include anything that lies just beneath the surface, and what was once the subtext — a stratum of fandom accessible only to the most loyal and discerning observers — has become the context.»
Le nicchie creano il contesto per la lettura di messaggi subliminali, riconoscibili solo da chi condivide lo specifico milieu culturale di un determinato club. Attraverso il tentativo di adozione di questi linguaggi o l’ingaggio delle nimcel, i brand cercano di navigare il caos identitario prodotto dalle social media platform, abbracciando il flusso scomposto di un’iper-segmentazione sempre più astratta che si rivela, di natura, fragile e provvisoria.
Se, però, si smette di leggere i report come profezie autoavverantesi, dove ogni fenomeno sembra nascere dall’incondizionato entusiasmo degli utenti, e si inizia a vederli come strumenti attraverso i quali comprendere l’evoluzione del rapporto tra brand, utenti e piattaforme, la centralità delle nicchie inizia ad assumere connotazioni diverse.
Nel suo libro The Conquest of Cool, pubblicato nel 1997, il politologo – tra l’altro co-fondatore di The Baffler – Thomas Frank, mette in luce un aspetto, spesso trascurato, del rapporto tra advertising e controculture.
Frank racconta l’evoluzione del linguaggio pubblicitario, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, spiegando come l’adozione, da parte dello stesso, degli atteggiamenti linguistici delle controculture bohémien, non sia stato tanto un fenomeno di cooptazione, come spesso viene compreso, quanto un naturale riflesso della crisi interiore che l’advertising stava vivendo proprio in quegli anni.
Secondo Frank, infatti, i pubblicitari non volevano semplicemente convertire i giovani al consumismo, ma abbracciavano e – per certi versi – anticipavano le loro stesse istanze, nel tentativo di rivoluzionare un mercato stagnante, causato da un’industria burocratica e centralizzata, che proponeva modelli di consumo impossibili, devoti a uno status quo inarrivabile.
Le pubblicità prodotte in quegli anni rappresentano l’espressione di questa nuova inclinazione: gli ironici spot della Volkswagen, ad esempio, adottano, per la prima volta, un tono diretto e onesto verso i propri lettori, riconoscendone l’incontrovertibile soggettività di individui liberi dalle mode, mentre rockstar e artisti iniziano a essere ingaggiati nelle campagne pubblicitarie come endorser straordinari, simboli di uno stile di vita eccezzionale ed eversivo. Personaggi, linguaggi e simboli delle controculture permeano l’ambiente pubblicitario, stravolgendo completamente il modo in cui i prodotti vengono presentati al pubblico: dall’emblema della pace sui pacchetti di sigarette all’incitamento alla ribellione nelle campagne automobilistiche, fino all’invenzione più importante di tutte: la gioventù come segmento di mercato.
Come racconta Frank, nel 1963 la Pepsi fa una cosa che cambierà per sempre le regole dell’advertising. Di fronte ai ripetuti fallimenti per aumentare la visibilità del proprio prodotto rispetto a quello di Coca-Cola, decide di produrre uno spot che, invece di concentrarsi sulle caratteristiche della bevanda, mette in primo piano i suoi consumatori, il loro stile di vita e l’idea che un prodotto possa diventare un simbolo di espressione identitaria attraverso il quale riconoscersi in un gruppo, quello della Pepsi Generation. È la nascita della segmentazione non solo di un target alternativo alla famiglia nucleare degli spot anni Cinquanta, ma anche di un nuovo gruppo di consumatori che riconosce la gioventù come qualcosa di più di un’età anagrafica, ovvero come un’attitudine indossabile da chiunque si riconosca in quel club. Nel suo libro Frank spiega:
«What is less frequently recognised is the basic marketing fact that youth had a meaning and an appeal that extended far beyond the youth market proper. The imagery and language of youth can be applied effectively to all sorts of products marketed to all varieties of people, because youth is an attractive consuming attitude, not an age—an attitude that was preeminently defined by the values of the counterculture. By “youth,” Madison Avenue meant hip, often expressed with psychedelic references, talk of rebellion, and intimations of free love.»
La giovinezza hip di Madison Avenue, di cui parla Frank, è quella teorizzata da Norman Mailer nel 1957, in un’opera in cui l’hipster viene presentato come il simbolo di ribellione dal paralizzante conformismo di massa. L’hipster, infatti, diventa in quegli anni la chiave di volta per esprimere il nuovo approccio ai consumi, tanto della gioventù, quanto dei corporate revolutionaries: libero, disincantato, svincolato dalle norme della classe media ma, soprattutto, padrone dell’obsolescenza e non sua semplice vittima.
L’hipster non si limita a seguire le tendenze, bensì le incarna e le accelera, combatte l’obsolescenza dei prodotti anticipandola e facendosi lui stesso portatore di una nuova forma di superamento: quella del suo stesso desiderio di consumo, che diventa precario, sempre meno prevedibile, svincolato dallo status quo. Il suo disinteresse verso la scalata sociale, rende inutile un mercato pronto a commercializzare nuovi beni facendo leva sul bisogno del pubblico di affermare il propro prestigio, e finisce per creare una nuova attitudine al consumo, dettata da desideri individualistici e velleitari, volubili e autoreferenziali. Infondendo l’immaginario controculturale nell’advertising, i pubblicitari finiscono per trasformare la ribellione nel fenomeno catalizzatore del mainstream, un impulso che rende costantemente inattuali i consumi consolidati in cerca di nuove esperienze libere dall’establishment.
A sessant’anni dalla nascita della Pepsi Generation e dalla segmentazione della gioventù, gli ingredienti della rivoluzione controculturale del mercato consumistico continuano ad aleggiare nei nostri futuri frammentati.
Alla luce delle riflessioni di Frank, il fenomeno delle nicchie mi sembra ancora più interessante perché rivela un aspetto fondamentale alla base del rapporto tra “sottoculture giovanili" e pubblicità, ovvero che si tratta di due forze che si influenzano reciprocamente: mentre le prime reinventano perpetuamente i consumi, sono le seconde a portare nel mainstream i loro messaggi, fungendo da camera di risonanza dei nuovi simboli identitari che ogni micro generazione porta con sé.
Oggi, però, le nicchie non veicolano solo una nuova attitudine al mercato, ma incorporano l’obsolescenza della segmentazione stessa: l’idea di gioventù non è più idonea a sostenere il rapporto, discontinuo e complesso, che intratteniamo con il sistema dei consumi, così come non rappresenta più un simbolo identitario sufficiente a generare un senso di appartenenza collettiva. Le micro-community esasperano e spezzettano quel che è rimasto dell’attitudine hipster, creando identità sempre più arbitrarie e precarie, che si disgregano in un flusso di raccomandazioni così specifiche da perdere il loro significato, semplicemente perché i contesti possibili sono troppi.
Gli studi e i report degli ultimi mesi, allora, non raccontano solo una serie di nuove tendenze da cavalcare per fare dell’ottimo marketing, ma nascondono anche un’indicazione sul significato di questa costante ricerca del proprio 1%: stiamo vivendo una profonda crisi identitaria del web, che coinvolge tanto gli utenti quanto il mercato che cerca un dialogo con loro, un esaurimento accelerato dalla continua ricerca dell’autenticità e della novità, dove ogni rappresentazione diventa sempre più velocemente inattuale e obsolescente.
Forse le nicchie ci salveranno, forse sono davvero il primo passo verso un’effettiva decentralizzazione del web, o magari porteranno semplicemente al collasso di un’industria che – da qui a pochi mesi – non saprà più cosa vendere a un segmento identitario basato sulla passione per i video in cui un tizio fa il burro con la ‘nduja. In ogni caso, a me ora è venuta una gran voglia di ascoltare Elliott Smith.
Grazie per aver letto fin qui! Nelle prossime settimane sarò un po’ impegnata, per questo Una goccia si fermerà per circa un mesetto, ci sentiamo tra fine aprile e inizio maggio 👋