Non molto tempo fa, durante una delle mie passeggiate lungo i margini orientali della città, mi sono trovata alle porte di una gated community, un consorzio di abitazioni che si è volontariamente sottratto al contatto con il mondo esterno costruendo un sofisticato sistema di sbarramenti e videocamere a circuito chiuso attive 24 ore su 24. Nonostante il profondo senso di inquietudine provocato dalla presenza di un complesso iper-vigilato all’interno di un’area generalmente nota per le sue edificazioni popolari, ho deciso comunque di eludere la sorveglianza e di infiltrarmi in quel fitto reticolo di stradine, giardini privati e residenze familiari, le cui verniciature sbiadite tradivano appena il loro colore primario: pallidi guscio d'uovo al posto del giallo, deboli carta da zucchero invece del blu, e così via.
Il consorzio era la scenografia del sobborgo perfetto: un luogo dove i sensi erano sedati e manipolati da un’abile orchestrazione di luci e profumi, e dove la realtà circostante diventava un debole ricordo pronto a sparire sotto una patina di architetture residenziali e atmosfere da villeggiatura. Il puzzo dello smog veniva sopraffatto dal pungente aroma dei pini e dal fresco profumo di Marsiglia dei panni stesi al sole, mentre il mondo esterno era bandito alla vista dalle alte recinzioni rivestite da siepi sempreverdi. Superato il confine della guardianina, era come se Roma Est sparisse e mi ritrovassi in una dimensione completamente diversa, priva di punti di riferimento in grado di indicare dove fossi. Poteva essere Casal Palocco, poteva essere Levittown, e invece era semplicemente a due passi da Tor Bella Monaca.
Le gated community, con i loro fragili cancelli e i loro prati curati, rappresentano un debole tentativo di creare un senso di separazione e di sicurezza dal resto del mondo. Non sono nulla in confronto alle fantasie di fuga e autonomia che ossessionano le menti degli imprenditori tech, aspirazioni a dir poco distopiche che negli ultimi anni hanno dato vita a veri e propri progetti abitativi che prevedono la creazione di nuove società all’insegna dell’autosovranità.
Sono i progetti di cui parla il teorico dei media Douglas Rushkoff nel suo saggio Solo i più ricchi, edito da Luiss University Press, all’interno del quale vengono svelate alcune delle visioni più oscure dell’élite tecnologica: c’è chi sogna di abbandonare il pianeta per colonizzare Marte, ma anche chi preferisce costruire bunker sotterranei, fondare fattorie autosufficienti o progettare nano-nazioni galleggianti nell'oceano. Progetti di isolamento e autogoverno che farebbero impallidire persino Living+.
A guidare queste fantasie è quello che Rushkoff chiama il Mindset, ossia l’ideologia radicale che domina la Silicon Valley e che alimenta le velleità di fuga dei miliardari dal mondo che hanno contribuito a rovinare. Il Mindset è molto più di un semplice desiderio di evasione, è il sistema di pratiche e credenze che ha contributo ad arrivare a questo stadio del dominio tecnologico e che oggi scalpita per intraprendere la prossima iterazione verso un capitalismo sempre più immateriale e finanziario, il “meta”. Il Mindset è la riduzione dei rapporti umani a transazioni di mercato, è la negazione dell’incerto, è il tentativo di imporre un ordine algoritmico e quantitativo su una realtà che sfugge al controllo. È anche e soprattutto la convinzione che la tecnica sia l’unica soluzione possibile ai problemi di una realtà che si fa sempre più grigia e noiosa paragonata alle esperienze virtuali, motivo per cui qualsiasi tentativo di miglioramento non può trasgredire le leggi della programmazione digitale.
Se la realtà fa schifo cerchiamo una soluzione tecnologica, se la soluzione tecnologica fa schifo ne inventiamo una nuova. “Mindset”, in fin dei conti, non è altro che un parolone distopico – come tanti altri utilizzati nella letteratura tecnologica degli ultimi anni – per raccontare la progressiva penetrazione della mentalità tecnottimista nella società in cui viviamo e il circolo vizioso che ha generato, in cui la semplificazione produce sfruttamento, l’informazione genera teorie del complotto, l’iperconnessione alimenta le fantasie di isolamento. È una forma mentis che si riproduce anche nei nostri atteggiamenti, per esempio quando ci accendiamo di entusiasmo per l’ennesima app che propone la soluzione digitale a un problema che, con ogni probabilità, il Mindset stesso ha contribuito a creare. A differenza delle élite, non possiamo progettare un viaggio di sola andata su Marte, ma ci lasciamo sedurre dall’illusione di poter risolvere il problema migrando su un nuovo programma informatico.
La crisi dei social network ne è un esempio. Ne ho parlato questa settimana sulla rivista multimediale Lucy in un articolo che esplora il sogno infranto della socialità online e l’illusione che ci spinge a cercare di ricostituire le condizioni originarie dei social media attraverso un progetto nostalgico e irrealizzabile: quello di app e piattaforme che cercano in tutti i modi di ricreare lo spirito delle community digitali e di riportare la socializzazione alla sua essenza “autentica e reale”. Ma la nostalgia non è l’unico problema.
Mentre scrivevo il pezzo, ripensavo alle riflessioni di Rushkoff e mi accorgevo che le comunità prefigurate da queste nuove piattaforme assomigliano molto di più ai progetti di gated community che ai luoghi d’incontro di massa a cui abbiamo cercato di paragonare i classici social network. Si tratta di spazi che eliminano il conflitto perché si propongono di organizzare la vita in micro-momenti attraverso i quali gestire i singoli aspetti della quotidianità: Pineapple, ad esempio, si offre come strumento per il networking professionale della Gen Z o, come spiega la presentazione sul sito, come uno spazio che nasce dalla fusione di LinkedIn e Instagram, dove incontrare like-minded folks e mettere la propria singolarità al centro dello sviluppo professionale. The Stack World persegue la stessa missione, ma si propone di servire un’esclusiva comunità di donne pronte a dare uno slancio alla propria crescita personale, mentre OneRoof e Somewhere Good si presentano come contenitori dove socializzare con “persone simili” nel proprio vicinato o addirittura all’interno dello stesso condominio.
Leggendo attentamente i manifesti di queste startup emerge il vero rapporto tra “individualità” e “comunità” sotteso al loro progetto: non si tratta di creare nuove opportunità di interrelazione sociale, ma forme di membership a tanti piccoli club privati, filtrati da requisiti di accesso minimi che permettono al singolo di aderire a un gruppo affine, di incontrare i suoi like-minded folks. Come spiega Terry Nguyen in un articolo su Vox le comunità oggi sono diventate soprattutto uno strumento di marketing per creare fidelizzazione. In un mercato saturo di prodotti e servizi, le aziende hanno imparato a maneggiare le pratiche di “costruzione comunitaria” per incentivare forme di consumismo attivo, dove la relazione tra utente e marchio non si limita più al soddisfacimento di una transazione circoscritta (comprare un prodotto), ma si inserisce in un contesto più ampio, all’interno del quale gli individui sono incentivati a partecipare ad attività, conversazioni e iniziative condividendo con altri consumatori “simili” elementi identitari come interessi, abitudini e gusti.
Nel suo pezzo, Nguyen riporta il caso delle “ragazze Glossier”, clienti abituali che sui social possono diventare vere e proprie ambasciatrici del brand di make-up, ma sappiamo bene che gli esempi potrebbero sprecarsi. Proprio in questi giorni, Lavazza mi propone storie sponsorizzate che mi invitano a diventare una Coffee Defender e unirmi alla sua community “di baristi consapevoli e di clienti coffee lover” (l’algoritmo non sa che bevo solo caffè americano), mentre l’app di scatti in tempo reale, BeReal, sta lanciando la nuova funzionalità Real People per permettere agli utenti di accedere a un esclusivo feed di fotografie di “vita reale” pubblicate da personaggi pubblici. L’operazione, oltre mettere in luce la contraddizione di un social che ha fatto della pretesa di autenticità il suo punto di forza, rivela soprattutto la vera natura dell’idea di community incorporata nelle logiche digitali: come nei consorzi “fortificati”, anche nelle branded community e nei nuovi collective media l’elemento comunitario finisce per essere poco più di un eufemismo per descrivere il passaggio da un “senso di appartenenza” collettivo a un sistema di affiliazioni basato sulla partecipazione a uno status sociale.
In questo modo, le community diventano sì dei safe space, ma non nel senso che intendiamo quando parliamo di libertà di espressione e di condivisione. Sono circoli chiusi che ci promettono di controllare l’esistenza, di usufruire di vantaggi, garantendoci – come afferma il manifesto dei collective media – “autodeterminazione e ricompense”.
È colpa del Mindset? Non lo so. Sicuramente la tesi di Rushkoff aggiunge una riflessione importante a quanto si è già detto sugli effetti del capitalismo tecnologico, ovvero che per quanto ci sforziamo di costruire nuovi mondi virtuali, non possiamo lasciarci alle spalle il mondo concreto in cui viviamo e le relazioni che costruiamo al suo interno. I ricchi progettano la fuga perché sono consapevoli che le persone sfruttate, emarginate e ignorate dai loro sistemi continuano a esistere fuori dai cancelli delle gated community. Gli ecosistemi chiusi sono più fragili di quanto si pensi, le isole deserte sono molto più dipendenti dagli scambi di quanto non lo sia un posto qualunque sulla terraferma.
In un passaggio del suo libro, Rushkoff racconta una conversazione con un ex ingegnere di Facebook intento a presentargli la visione utopistica di un nuovo social network in grado di incentivare la collaborazione e il consenso con un semplice click, facendo sparire per sempre qualsiasi elemento conflittuale. “Il mondo sarebbe un posto migliore” gli spiega. A quel punto Rushkoff produce un’ipotesi crudelmente ironica: forse puoi togliere un ingegnere da Facebook, ma non puoi togliere Facebook da un ingegnere. Speriamo che non valga lo stesso per noi utenti.