Verso la fine del 2021, la ventiquattrenne americana Ashley Corbo decide di lasciare il suo lavoro di assistente didattica in una scuola elementare per concentrarsi a tempo pieno sulla sua carriera di creatrice di contenuti digitali. Come molte delle sue coetanee, Ashley è consapevole che per emergere online è necessario presenziare il mondo virtuale con una frenesia creativa che sfiora l’ossessione, giostrandosi tra le diverse piattaforme social con proposte sempre diverse, aggiornate sui trend del momento. Tra novembre e dicembre 2021 è già attiva su tutti social network che contano: su TikTok, si cimenta in danze sincronizzate, lip-synch ed esibizioni dei suoi ultimi acquisti; su YouTube si trasforma in una guru di benessere e bellezza, pronta a dispensare consigli su come truccarsi e cosa mangiare; su Instagram compone meticolosamente il suo feed con grafiche pastello che propongono citazioni motivazionali e to-do-list di auto-aiuto.
Quello che ad Ashley manca nell’inverno 2021 è un progetto personale, qualcosa in grado di dare senso alle sue dimissioni. È così che nasce il suo podcast “Trying not to care”, uno spazio in cui decide di raccontare la sua vita quotidiana, fatta di amicizie, relazioni, esaurimenti nervosi e sogni infranti. Nei suoi monologhi di venti minuti, Ashley parla dei suoi dilemmi esistenziali, condivide insicurezze e aspirazioni ma, soprattutto, elargisce attenti suggerimenti su come affrontare quel flusso mutevole di emozioni e priorità che caratterizza la vita di ogni individuo, e che lei – insieme a qualche milione di utenti online – da qualche mese a questa parte identifica usando un’espressione molto in voga: entrare in un’era.
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L’idea che uno stato d’animo o una serie di sfortunate vicissitudini possano essere sintetizzate in un’era – intesa come una fase temporale coerente e riconoscibile nella vita di una persona – si sposa bene con l’ingenuo e categorico egocentrismo dei vent’anni. E forse non è un caso che siano proprio le utenti più giovani ad aver trasformato quest’espressione in una forma di auto-narrazione su piattaforme come TikTok, Instagram e Reddit.
In una puntata del suo podcast, Ashley Cordo racconta di essere entrata nella sua selfish era semplicemente perché ha deciso di smettere di compiacere gli altri, mentre sui social prolificano post e video di utenti che puntualmente annunciano il loro ingresso in una nuova era. Qualcosa è andato storto a lavoro? non è una disavventura, è l’inizio della tua flop era; hai smesso di interessarti a cosa pensano gli altri delle tue scelte? benvenuta nella villain era! O forse provi un irrefrenabile impulso a prenderti cura di te stessa a colpi di prodotti biologici e Power Yoga? Non ci sono dubbi: sei appena entrata nella tua healing era.
Come spiega un articolo su Mashable, dividere la vita in epoche e raccontare i propri sentimenti annunciando l’inizio di una nuova era non è altro che l’ennesimo tentativo di costruire una narrazione coesa e uniforme della propria identità, presentandosi online come personaggi principali di un telefilm fatto di momenti apicali e svolte drammatiche facilmente identificabili. Non è una coincidenza che molte delle ere citate dalle utenti si ispirino proprio ai tratti caratteriali delle protagoniste di serie tv, film e libri: c’è la Marianne di Normal People era, la Frances Ha era, l’era del narratore senza nome de Il mio anno di riposo e oblio e la Jo March era. In un video su TikTok, la creator @sativadiva1997 condivide con le sue follower il difficile passaggio dalla Fleabag era alla Russian doll era usando lo stesso tono ammonitore delle guru astrologiche che segnalano l’incombente arrivo di mercurio retrogrado. Da questo punto di vista, la funzione delle ere non è tanto diversa da quella dell’oroscopo: fornire interpretazioni accattivanti e coerenti di situazioni universali in cui chiunque può riconoscersi (il cosiddetto effetto Forer) mantenendo l’illusione di una singolarità in grado di raccontarsi in maniera libera e sfaccettata anche nella dimensione digitale.
Le ere possono essere considerate un’espressione di quella che Haley Nahman definisce cope culture, una condizione moderna per cui – una volta accettati i mali del sistema capitalistico – non possiamo fare altro che attraversare la vita rassegnandoci a diagnosticare le sue conseguenze, di cui l’autonarrazione “epocale” è solo l’ultima delle tante avvisaglie, insieme ai burnout, i mood shift e le vibe. Come queste ultime, però, le ere non rappresentano semplicemente la nuova espressione di un vecchio male, ma un sistema semantico in continua evoluzione.
Estrapolate dal loro contesto e rielaborate all’infinito, le emozioni online diventano meme, elementi a uso e consumo di gruppi di utenti che se ne appropriano per riadattarli nel tempo, impastandoli di citazioni provenienti delle culture di nicchia o da quella mainstream, che ne aggiornano costantemente il significato. D’altronde l’espressione flop era nasceva nel 2021 per descrivere la fase discendente della carriera di un'artista, mentre oggi è un meme malleabile a disposizione di chiunque voglia esprimere un senso di insuccesso online.
Nel suo saggio Because Internet: Understanding the New Rules of Language la linguista Gretchen McCulloch spiega come l’evoluzione dei meme provenga proprio da una lunga tradizione di esperimenti espressivi – visuali e testuali – che gli utenti hanno sviluppato sin dalle prime interazioni online per cercare di dare un tono più caldo e tridimensionale alle conversazioni. In un contenitore come quello digitale, dove la colloquialità e la rapidità del parlato incontrano il carattere formale e ordinato della scrittura, lo sviluppo di codici condivisi dagli interlocutori in un determinato momento culturale diventa un processo naturale per veicolare significati extralinguistici.
Se su TikTok le ere sono meme che testimoniano un’autonarrazione psicologica basata sui sentimenti della cope culture, altri pastiche fuori dalla cultura mainstream raccontano un aspetto diverso della comunicazione emotiva online. Su Instagram, account come @venerealdisneys drammatizzano il linguaggio autobiografico intridendolo di un pungente sentimentalismo cinico, una forma di sarcasmo che combina la comunicazione tipografica dei primi scambi online con un repertorio di immagini fantastiche e quotidiane, oniriche e inquietanti. Espressioni ante-litteram di comunicazione emotiva digitale trovano nuovamente spazio nei meme di Venereal, in cui la combinazione creativa di punteggiatura, segni diacritici e stili diversi incontra l’iconografia di una contemporaneità che assume sempre di più i tratti dell’uncanny valley.
Nel suo saggio, McCulloch racconta l’evoluzione di una tendenza linguistica nota come ~*sparkle sarcasm*~, ovvero la pratica di segnalare attraverso tilde e asterischi parole da leggere con un tono ironico. Lo ~*sparkle sarcasm*~ è a suo modo un meme: in un primo momento, la combinazione di tilde e asterischi era nata per simboleggiare un tono di voce gioioso ed entusiastico, finché l’estetica graziosa dei simboli non ha iniziato a essere impiegata per produrre esattamente l’opposto, diventando un espediente grafico per veicolare messaggi stridenti e sarcastici. Allo stesso modo, Venereal combina luccichii, font infantili e colori pastello a immagini in bassa risoluzione e caption esistenziali, raccontando una forma di emotività che stona con i tentativi di autodiagnosi delle ere su TikTok.
I meme di Venereal Disneys non pretendono di far emergere una singolarità o di delineare un periodo di tempo segnalato da un inizio o una fine distinguibili. Le emozioni, piuttosto, si fondono con il linguaggio, diventando parte dell’estetica tipografica, proprio come le prime forme di ~*sparkle sarcasm*~ o come la pratica di comunicare emozioni forti premendo con veemenza sequenze casuali di lettere sulla tastiera (il keysmash).
L’addomesticamento emotivo che nasce dall’identificazione di mood, vibe ed ere in un sistema di supervisione algoritmica si scontra con le forme di significazione che identificano il sarcasmo come strumento di evasione dal codice. Anche in un ambiente normato da formule e sequenze di istruzioni, il linguaggio continua a essere un progetto open source, come lo descrive McCulloch, un network in continua evoluzione, incompleto in ogni sua fase. A differenza della selfish era, è una dimensione generosa e democratica, duttile e contraddittoria. E la cosa bella è che non è destinata a finire.