Ogni giorno mi immergo negli ambienti virtuali di Red Dead Redemption 2. Mi sveglio nell’aria fredda e sporca della città mineraria di Annesburg, monto a cavallo e inizio a seguire il profilo del fiume Roanoke, attraversando zone boschive e montane, fino a incontrare la vasta e soleggiata prateria del New Hanover.
Sincronizzo il trotto a quello di antilopi e coyote, torno su sentieri battuti o mi inerpico alla ricerca di aree inesplorate. Mi fermo solo per frugare nelle abitazioni in cerca di provviste o per riempire la bisaccia di piante che nel mondo concreto non saprei minimamente identificare. Salvia coccinea, radice di bardana, partenio selvatico e bacca di Gaultheria.
Ho imparato a riconoscere in quali momenti della giornata virtuale preferisco visitare un luogo, al punto che a volte mi capita di sentirne il richiamo quando l’atmosfera assume una certa connotazione: il tramonto su Doverhill, la bruma silvestre nella Cumberland Forest, il manto di stelle notturne nel deserto di Rio Bravo. Percorro tutta la mappa almeno una volta al giorno, perdendomi nelle transizioni paesaggistiche che segnalano il passaggio dall’umidità melmosa del Bayou Nwa alle strade inquinate e vitali di Saint Denis, dalla natura rigogliosa e indomita del West Elizabeth al panorama arido e polveroso del New Austin. È un mondo perfettamente condensato, confezionato per restituire le insidie e le meraviglie di un passato ispirato e fittizio.
Non posso dire di essere una vera gamer, né di amare il carattere socievole degli open world online: evito con diligenza ogni puntino mobile sulla mappa che segnala la presenza di un utente nelle vicinanze. Se uno di questi si avvicina, faccio allontanare il mio cavallo e inizio a scappare a piedi, oppure metto in scena un bug e rimango immobile a fissare il vuoto (il corrispettivo di fingersi morta in un videogame) o, a mali estremi, entro in un negozio e spulcio il catalogo prodotti finché l’altro non ha perso interesse nell’idea di conficcarmi una pallottola nel cranio. Non ho alcuna intenzione di socializzare o di competere, sono lì solo per adempiere al mio giro rituale della mappa, per ripercorrere compulsivamente gli stessi luoghi in preda a una nostalgia trasognante e dolorosa, un fervore esplorativo affamato di contemplazione.
Al culmine del piacere e sul confine della paura c’è un sentimento misterioso e poco studiato, che in inglese viene segnalato con il termine awe. In italiano si può tradurre in “stupore”, “soggezione” o “timore reverenziale”, ma è una di quelle parole condannate a restituire solo un indizio del sentimento che sono chiamate a designare.
Che l’awe si trovi “al culmine del piacere e sul confine della paura” non l’ho detto io, ma i ricercatori Dacher Keltner e Jonathan Haidt, che nell’agosto 2010 hanno pubblicato uno dei primi studi su questo particolare tipo di emozione. Nel paper, la sensazione di awe viene descritta come un’esperienza sensoriale travolgente e inattesa, in grado di generare al tempo stesso sorpresa e confusione, meraviglia e turbamento, in reazione a uno stimolo difficile da computare cognitivamente. Fanno parte di questi stimoli: i paesaggi mozzafiato, i grandi fenomeni naturali, l’essenza divina, le opere d’arte e i fenomeni “uncanny”, come la magia o le esperienze immersive della realtà virtuale.
Nei videogame, e in particolare in quelli dove l’utente può concedersi il piacere di vagabondare senza seguire un percorso obbligatorio, l’awe può essere stimolato artificialmente per amplificare il senso di immersione nel paesaggio virtuale. Secondo uno studio del 2018, elicitare il sentimento di awe è una pratica fondamentale negli open world, i cui scenari vengono modellati sulla base di un’accurata combinazione di fattori scatenanti (awe-inducing o awe-inspiring): panoramiche sconfinate, un certo contrasto di luci e ombre, l’impiego di sonorità suggestive e la riproduzione di qualità atmosferiche in grado di generare un forte impatto emotivo, come una nebbia misteriosa e avvolgente o un cielo screziato di rosso e oro al tramonto.
L’awe contribuisce a depotenziare l’ego, a evadere dai confini del sé per immergersi in un’esperienza trasformativa incentrata sulla contemplazione di uno stimolo eccezionale e spaventoso. Secondo gli studi, l’awe riduce lo stress, diluisce la comprensione del tempo, restituisce la percezione di vivere qualcosa di autentico. È escapismo con un senso di grandezza, ricreazione con uno scopo più alto. Secondo i report di consulenza aziendale, l’awe è il nuovo sentimento per conquistare i consumatori, l’ingrediente segreto da incorporare nella costruzione di una nuova generazione di prodotti e servizi per un mercato indolenzito e in preda alla vibecession, che vede gli utenti adottare comportamenti più cauti e pessimisti di quanto la situazione economica non richieda.
Il documento Future Consumer prodotto da WGSN – un’analisi che ogni anno si propone di anticipare il comportamento dei consumatori per quello successivo – inserisce l’awe tra i principali sentimenti che guideranno le esigenze degli avventori nel 2024. L’awe, spiegano gli esperti, può essere sfruttato per fare team building, raggiungere l’armonia interiore e ideare percorsi di crescita personale e aziendale.
A differenza della mindfulness, l’awe non produce un’emancipazione della spiritualità dalla mondanità: al contrario, una volta attivato, infonde un senso di potere e meraviglia verso lo stimolo osservato, per questo viene considerato un allettante strumento di marketing emotivo. Nel suo ultimo report, la società di consulenza e marketing digitale Wunderman Thompson dedica più di cento pagine alla lettura psicografica delle nuove opportunità di mercato all’insegna dell’awe. Il documento si intitola The age of re-enchantment e si apre con un’introduzione che dichiara la necessità di ricostruire il mondo attraverso il reincanto, dove le uniche metriche che contano per i brand sono la capacità di suscitare stupore, accelerare il ritmo cardiaco, far correre un brivido lungo la schiena.
Brands can help people transcend tough times and jolt them from long-standing malaise by celebrating the thrilling, the uplifting, the awe-inspiring, and the magical
Il documento presenta una lista di trend che di particolare hanno solo l’implementazione di un nuovo storytelling per raccontare strategie di marketing consuete, che vengono così riposizionate come parte di una nuova economia magica e orientata all’awe. La retorica polverosa dell’inaspettato viene spazzolata e lucidata combinando la naiveté della meraviglia fanciullesca con il sottotono cupo e sibillino della fascinazione verso il misterioso e il perturbante.
Un servizio di shopping a domicilio personalizzato, che un giorno avrebbe esibito con orgoglio l’etichetta del customizzato o tailor-made, oggi viene pubblicizzato sotto l’accattivante bandiera della sorpresa e della rottura degli schemi quotidiani, mentre il marchio Coca-Cola lancia la sua nuova collezione di gusti ispirati ai “regni del surreale, dell'immaginario e dell'ultraterreno” che in realtà sono semplici aromi fruttati dai nomi fantastici: la menta diventa Starlight, la combinazione di arancia e vaniglia è Dreamworld, mentre quella di limone e zenzero viene intitolata Byte, in onore dell’unità di misura informativa su cui vengono costruiti i regni virtuali. Eppure il mio personaggio in Red Dead Redemption sorseggia bevande molto meno ambiziose, come birra e cognac.
Come tutti quei fenomeni che traggono la loro ragionevolezza dall’inopportunità di svelare i propri meccanismi (non sarebbe magico se potessimo spiegarlo), anche il marketing del reincanto serve allo scopo di consolidare uno status, creando una distanza tra il mago e il babbano, tra il collezionista di meraviglie e il bifolco.
Il consumatore alienato e disilluso viene posto di fronte alla promessa di un nuovo prodigio che il marchio è chiamato a realizzare attraverso l’impiego di formule da neosciamanesimo capitalista: “Selling serendipity” dice Wunderman Thompson, e al consumatore viene offerta un’app per ordinare una box misteriosa di cibo a domicilio; “Trascendent Wellness” erompe uno dei nuovissimi trend, e viene inventato un sensore per proiettare forme e colori rilassanti direttamente nelle palpebre; “Radical reconnection” si dice, e nasce un programma di incontri online per utenti in burnout.
Il reincanto pubblicitario, teorizzato negli anni Novanta dal filosofo Pascal Bruckner per mettere in luce la nascita di un nuovo linguaggio magico e seduttivo riferito ai prodotti, rivive nella nuova dialettica dell’awe, in cui il tentativo di riconciliazione tra il quantificabile e il meraviglioso incontra le esigenze di un mercato che cerca disperatamente di negare le fondamenta sempre più fragili su cui si muove il consumo moderno. Alla guerra, gli esaurimenti nervosi, i disastri climatici, lo sfruttamento del lavoro e il logoramento dell’esperienza virtuale il marketing non può fare altro che contrapporre una nuova fede animista nelle merci e nelle esperienze perturbate dall’awe. L’ennesima spinta all’astrazione di un capitalismo che ha esaurito i suoi horcrux.
Intanto ad Annesburg il sole è scivolato sotto la linea dell’orizzonte, lasciando dietro di sé una scia di rosso e arancio che si riflette sulle acque del Lannahechee. La città sembra addormentarsi, ma in realtà è un sonno inquieto, pieno di rumori e di ombre. Le miniere continuano a sputare fumo e polvere, che si mescolano al vapore delle locomotive e alle nuvole basse. Oltre il fiume, la foresta si fa scura e silenziosa, sussultando ogni tanto per l’ulutato di un lupo o il grido di un gufo. I pini e i cedri si stagliano sul cielo come sagome nere e minacciose, mentre il fumo li avvolge come una coltre. Fa un po’ paura, ma è incantevole.