Ciao a tutti/e 👋
Questa è l’ultima newsletter dell’estate. Volevo ringraziarvi per aver letto fin qui. Onestamente non mi aspettavo nulla da questo progetto, se non la possibilità di sperimentare senza dovermi attenere a strategie editoriali e vincoli accademici, e alla fine è diventato una cosa che mi piace un sacco, con un seguito che non avrei mai immaginato.
Che dire? Grazie davvero e buone vacanze! ❤
D’estate il mio quartiere si riempie dell’odore intenso e dolciastro dei cespugli di falso gelsomino, una pianta rampicante del tutto simile a quella del vero gelsomino a eccezione del suo profumo, tutt’altro che delicato. È una fragranza densa e penetrante, che verso la fine di maggio invade le strade e gli appartamenti, annunciando ai suoi occupanti l’imminente arrivo della bella stagione. È anche il segnale tacitamente condiviso che preannuncia il modo tutto convenzionale in cui il quartiere cambia assetto per accogliere il caldo. Un modo che ha a che fare con il progressivo dileguamento delle attività dalle verande dei bar, a vantaggio di una presenza ancora più baldanzosa nei centri commerciali e di una dislocazione dei rapporti umani attorno ai margini delle piscine che costellano il quartiere.
La stima è approssimativa, ma nel raggio di due chilometri da dove abito ci sono almeno quaranta piscine. Ho provato a contarle tutte su Google Maps. Un numero esiguo è arroccato sulle terrazze degli attici di lusso, mentre la maggior parte si nasconde dietro i cespugli di falso gelsomino che abbracciano i condomini e i centri sportivi. Sono angoli di benessere privato, visibili esclusivamente dall’alto di una mappa satellitare, piccole oasi nascoste che solo di tanto in tanto tradiscono la propria presenza riempiendo l’aria immobile delle ore pomeridiane con le vibrazioni frizzanti degli occasionali tuffi in acqua.
Anche io seguo fedelmente il nuovo ordine stagionale. Le prime fioriture di falso gelsomino sono sufficienti ad accendere in me l’impulso a migrare verso la vasca di cloro più vicina, che nel caso specifico è situata nell’impianto sportivo a pochi metri dalla mia abitazione, un luogo spoglio e dozzinale che mal riflette i tentativi dei gestori di presentarlo come un angolo di esclusivo ristoro nell’ultima frontiera residenziale di Roma Sud. Non ci vado per la tintarella, e tanto meno per una questione di status, quanto piuttosto per assecondare quel bisogno tutto estivo di mettere a mollo i pensieri, di abbandonare le resistenze fluttuando passivamente in un liquido accogliente e decontaminato.
In un passaggio di White Album, Joan Didion racconta la proverbiale onnipresenza delle piscine in California come un tentativo di dominio, piuttosto che di sfarzo. Di tutte le infrastrutture progettate dall’uomo per piegare, ordinare e strumentalizzare gli elementi naturali, quelle che riguardano l’acqua hanno una particolare forza mistica.
Quando cammino per l’Eur, posso scegliere di orientarmi seguendo con lo sguardo i due elementi totemici che svettano sul paesaggio: la torre piezometrica dell’Eur, meglio nota come il Fungo, e il Centro Idrico di Vigna Murata, una torre-serbatoio che sembra uscita da una fantasia retrofuturista, monumento di utopia tecnologica degno di una copertina di Urania. Si tratta delle infrastrutture responsabili dell'approvvigionamento idrico di una buona fetta dell’area meridionale della città, inclusa quella che si potrebbe definire la piscina più grande della zona: il laghetto artificiale dell’Eur. L’ossessione per l’acqua e per la realizzazione di spazi in cui esibire il dominio idrico dell’uomo rappresentano la vera anima del quartiere. Per decenni l’Eur S.p.a. ha perseguito il sogno di diventare la più grande vetrina acquatica internazionale: dai progetti, mai realizzati, di una Città dell’acqua sulle ceneri del defunto velodromo e di un Water Science Park all’interno dello stesso Centro Idrico alle strutture – in eterno cantiere – del Sea Life Aquarium e dell’EXPO del Mediterraneo adiacenti al laghetto. Con le grandi opere private ancora in stallo, le piscine restano gli unici spazi dove ritrovare l’antica promessa di uno stile di vita moderno occidentale. In White Album Joan Didion scrive:
Il contenuto simbolico delle piscine è sempre stato interessante: una piscina viene scambiata per un simbolo di ricchezza, vera o presunta, e di una sorta di attenzione edonistica per il corpo. In realtà una piscina, per molti di noi qui all’Ovest, è un simbolo non di ricchezza, ma di ordine, di controllo sull’incontrollabile. Una piscina è acqua, resa disponibile e utile, ed è, come tale, infinitamente confortante per l’occhio dell’Ovest.
Sulle colline che sovrastano Los Angeles, l’infinito conforto di cui lo sguardo occidentale è eternamente affamato incontra l’orizzonte illimitato delle infinity pool, le piscine a sfioro i cui contorni invisibili sembrano fondersi con il panorama circostante.
Su Netflix, l’ondata di reality show dedicati al settore immobiliare californiano mi ha insegnato tutto quello che c’è da sapere sul nuovo linguaggio del controllo occidentale: infinity pool è un principio essenziale a cui combinare attributi immancabili come «indoor-outdoor feel», ovvero il collasso dei confini spaziali tra il dentro e il fuori (la sala da pranzo è collocata a bordo piscina, le pareti della camera da letto si sparecchiano per connettere il talamo al manto stellato) e la formula magica «this is such an entertainment home» utilizzata per indicare che l’abitazione si colloca appena all’estremità dello spettro che contiene il concetto di casa, con cui intrattiene un legame appena simbolico per concentrarsi invece sull’assunzione delle molteplici funzioni di Spa, ristorante e discoteca notturna.
In un articolo del 2020 dedicato a Selling Sunset, il programma che ha dato vita a questa nuova tendenza televisiva, una giornalista del Guardian parla di property porn, pornografia immobiliare, una critica accattivante che però si limita a osservare solo il fascino vouyeristico della produzione, trascurando gli aspetti più perversi dell’intero rituale immobiliare messo in scena dalla serie tv. Guardando l’intero pacchetto di show prodotti da Netflix (ci sono Selling Sunset, Selling OC e Selling Tampa, incentrati sul lavoro dell’Oppenheim Group, ma anche Buying Beverly Hills, del gruppo immobiliare competitor, The Agency) diventa sempre più chiaro che il valore della transazione non risiede più nell’immobile in sé, ma nella ricerca del piacere nel dominio e nel design degli elementi naturali.
Nella maggior parte dei casi, le ville mostrate non vengono acquistate per essere effettivamente abitate. I potenziali acquirenti parlano di investimenti e di soggiorni temporanei a scopo di business, di casa per le feste (this is such an entertainment home) e di progetti di ristrutturazione integrale. La lista dei materiali e delle amenità esclusive, enunciate dalle venditrici come specialità di un menù stellato, si rivela ridondante e monotona, svelando il ruolo appena superficiale che l’area massaggi e il marmo di Calacatta giocano nell’effettivo valore della proprietà.
In una puntata, le venditrici mostrano a una cliente una villa situata in un’area in corso di costruzione. Durante le riprese aeree, l’abitazione di lusso appare come un puntino bianco splendente immerso in un caotico paesaggio di gru e terra scarlatta smossa ovunque. Le colline esibiscono i fianchi scavati per accogliere i nuovi progetti di lusso, mentre le fosse geometriche intagliate nel terreno sono la testimonianza passeggera di quella peculiare relazione di abuso delle risorse naturali senza la quale non ci sarebbero infinity pool. Le venditrici ammirano il cantiere entusiaste: presto i connotati ruvidi e irregolari di quel paesaggio verranno assorbiti nell’ennesima estensione dell’orizzonte di conforto occidentale.
In uno studio sulle conseguenze del turismo sulla cultura delle isole del Pacifico, il docente di geografia umana John Connell sottolinea il ruolo delle infinity pool all’interno dei contesti naturali delle isole Fiji soggetti a una forte turistificazione occidentale.
Purpose-built pools in small islands, naturally surrounded by water, constitute the ultimate architecture of pleasure. The sea is domesticated—harmful creatures are gone, abrasive corals are absent, waves and currents are without threat. Tourism is a sentient, stress-free, mildly emotional experience.
Le infinity pool di cui parla Connell si distinguono dalle piscine californiane per una caratteristica che le rende ancora più paradigmatiche delle prime: invece di stagliarsi su una vista mozzafiato da una collina hollywoodiana, le piscine a sfioro nei resort tropicali sono incastonate nell’oceano, per permettere al turista di vivere un’esperienza autentica del paesaggio marittimo incontaminato, restando nei confini sicuri di un bacino d’acqua protetto e sterilizzato. Il vero potere simbolico della piscina infinita non è estinguere i confini, ma prometterne di nuovi, estendendo lo sguardo infinitamente confortante dell’Ovest verso l’illusione di una disponibilità illimitata degli elementi, una reiterazione ottimistica e violenta del sogno di controllo sull’incontrollabile.
Un’altra cosa interessante che dice John Connell è che il turismo delle infinity pool esemplifica quella che lui definisce placelessness, ovvero l’assenza di luogo. In un passaggio di Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, Byung-Chul Han teorizza un’idea simile: secondo il filosofo sudcoreano, nel mondo globalizzato la disponibilità illimitata e la riproduzione feconda di elementi culturali consumabili abbatte qualsiasi differenza tra il qui e l’altrove, tra l’unicità dell’esperienza auratica (dotata di aura) e l’ordinarietà del presente. L’iperculturità genera una nuova condizione, che risplende proprio nella sua mancanza di profondità, affidandosi al design per continuare a costruire nuove esperienze de-auraticizzate.
Il turista iperculturale non ha bisogno di viaggiare fisicamente per essere un turista, è già in viaggio in sé stesso o altrove. È turista già a casa propria. È altrove nel qui. Non arriva mai da nessuna parte.
Le piscine sono l’esperienza de-auraticizzata per eccellenza, non solo perché offrono un’ottima metafora per l’iperculturalità, ma anche perché ne sono il prodotto ideale: un’infrastruttura del piacere riproducibile ovunque, un prodotto che trasforma radicalmente l’ambiente circostante, solo per inserirlo in un orizzonte governabile e rasserenante.
Fluttuiamo passivamente nel presente nelle nostre vasche di cloro decontaminate, abbracciando l’unica prospettiva che siamo in grado di immaginare, tracciata dal perpetuo rifrangere dell’acqua nei nostri cortili di falso gelsomino. Quando il profumo acre e dolciastro torna a invadere la città, torniamo a essere i nuotatori di Cheever: una civiltà stanca, colpevole e sprovveduta assiepata lungo le rive del fiume Lucinda.