Ciao 👋
Sono sparita un po’. Ho scritto tanto e ho perso un sacco di tempo su Vinted, come vi racconto fra poco.
La newsletter di oggi era così lunga che l’ho divisa in due parti, riceverete la seconda la prossima settimana :)
Come al solito alla fine della newsletter trovare letture e altre cose belle che consiglio.
È tutto, ciao!
Nelle ultime settimane ho sviluppato una drammatica dipendenza da Vinted, una delle app più popolari per la compravendita di abbigliamento e oggettistica di seconda mano.
Il mio approccio si basa su un’economia circolare e sui sacri principi della girl math: acquisto solo spendendo i soldi ricavati dalle vendite, che Vinted trattiene in un borsellino interno all’app invece di inviare direttamente sul conto personale, quindi la mia percezione è di ottenere prodotti gratis in cambio di quelli che non indosso più. Non solo, oltre a cedere all’illusione della mancanza di una transazione finanziaria, nel tempo ho iniziato ad assumere una concezione quasi darwinana degli acquisti in app: Vinted, infatti, è una sorta di Far West del secondhand, una giungla di occasioni, svendite aggressive e contrattazioni all’ultimo respiro che permette di accaparrarsi oggetti incredibili a prezzi stracciati solo ai più coraggiosi che intendono lanciarsi in trattative cariche di tensione e scelte strategiche.
Non ho mai giocato d’azzardo, ma credo che l’effetto di Vinted sul sistema nervoso non sia poi così diverso. È un meccanismo talmente gratificante e stimolante che è molto difficile smettere, al punto che ultimamente ho iniziato a guardare ogni singolo capo del mio guardaroba come un prodotto potenzialmente negoziabile nell’app, un asset monetizzabile per ottenere qualcosa di nuovo in cambio. Solo martedì scorso indossavo una delle mie gonne preferite pensando che avrei dovuto metterla più spesso: pochi giorni dopo, la stessa gonna si trovava su un camion per la Dalmazia, meticolosamente impacchettata in una confezione di pluriball, in attesa di raggiungere l’utente @francoisxx89 che l’aveva acquistata dal mio “armadio” (così si chiama la pagina personale di ogni utente) a un prezzo che aveva messo d’accordo entrambe.
Ultimamente, quando vendo un oggetto a cui sono affezionata, mi capita anche di improvvisare una canzoncina d’addio in cui il prodotto mi saluta e mi ringrazia per l’esperienza, mentre mi spiega che per lui, ora, è arrivato il momento di andare. Una volta mi sono addirittura commossa quando a cantare è stata una camicia a cui tenevo molto. L’avevo messa in vendita solo per testare i limiti della mia volontà, non mi aspettavo che l’avrebbero acquistata così velocemente. Succede anche il contrario: mi affeziono ai prodotti degli altri, quelli che ho messo in wishlist ma che so che non acquisterò mai, perché costano troppo o perché sono manifestazioni di una velleità stilistica che non si concretizzerà mai, quindi mi ritrovo a fare il tifo affinché vengano venduti il prima possibile e, quando succede, sono felicissima. Fa niente se non sarò io la tua nuova proprietaria, buon viaggio gonna in tulle di Lazzari!
Vinted, però, per me è soprattutto il luogo in cui osservare la fragilità dei nuovi trend e quanto sia volubile il nostro desiderio verso l’ultimo prodotto in voga. È lo spazio dove emerge lo scollamento tra l’immaginario veicolato dai brand e la realtà: c’è un motivo, infatti, per cui i pantaloni in stile pigiamino psichedelico da 200 euro di Paloma Wool sono tra i capi più rivenduti del marchio all’interno dell’app ed è perché nella vita quotidiana di una persona normale, magari adulta, le occasioni per sentirsi credibili indossando una tutina di poliestere con una stampa allucinogena, purtroppo, sono davvero esigue. E lo stesso vale per l’impressionante numero di gonne collegiali tartan e per le camice da bambina con maxi colletto che invadono l’app, entrambe sintomo di una nuova ondata di nostalgia estetica verso dimensioni che abitano i recessi dell’immaginario Millennial: l’infanzia negli anni Novanta, un’idea di adolescenza introiettata nel corso dei Duemila attraverso film e serie tv, da Mean Girls a Gossip Girl. Eppure, continuiamo a lasciarci tentare dalle promesse di uno stile eccentrico e giovanile, nonostante l’inevitabile epilogo a cui questi pseudo travestimenti adolescenziali sono destinati: l’armadio di Vinted, la canzone d’addio, il camion per la Dalmazia.
Ovviamente, io sono la prima vittima di questi trend. Essendo cresciuta in una dimensione culturale caratterizzata dall’esaltazione del codice d’abbigliamento giovanile, soprattutto se connotato da una sottocultura di riferimento, come unica forma d’espressione stilistica autentica, faccio fatica a proiettarmi nell’età adulta adottando un linguaggio stilistico meno suscettibile all’ideale di una gioventù perenne.
È un problema generazionale più che personale, che ha a che fare con un fenomeno noto come “adultescenza”, ovvero il prolungamento degli atteggiamenti e dei gusti associati all’adolescenza anche nell’età adulta. Secondo una delle definizioni riportate da Treccani, gli adultescenti sono i
Giovani tra i 25 e i 35 anni, considerati adulti fino a pochi anni fa, ma ora non più secondo i cinque criteri per individuare il passaggio all’età adulta: conclusione degli studi, l’indipendenza finanziaria, l’abbandono della casa dei genitori, matrimonio e concepimento di un figlio.
In poche parole, se il fenomeno dell’adultescenza è diventato così capillare è perché la maggior parte dei “nuovi adulti”, oggi, non può permettersi di compiere i passaggi adeguati nelle tempistiche previste.
Un articolo del 2004 pubblicato sul New York Times, invece, spiega che il fenomeno non dipende solo dall’incremento dei costi abitativi e delle spese per l’educazione (e da una crisi economica che dura da quasi vent’anni, possiamo aggiungere oggi), ma dalla costruzione di un nuovo segmento di marketing per un gruppo sociale che, non spendendo i propri soldi in abitudini di consumo tradizionali (la casa, la macchina, i figli), è stato messo al centro di una nuova operazione volta a offrire prodotti e servizi per alimentare desideri più semplici e accessibili, ma non meno potenti a livello subliminale: la PlayStation, il frappuccino, gli avocado toast, i dischi dei Wheatus.
Il minimo comune denominatore che permette a questi beni di assomigliarsi e attirare la stessa tipologia di consumatori è la partecipazione simbolica a uno stile di vita libero dalle preoccupazioni e dalle responsabilità che dominano il “regno dei grandi”.
Mentre è molto difficile non intridere i discorsi sull’adultescenza di un’insopportabile lettura paternalista, è innegabile che – se guardiamo il fenomeno come un processo co-partecipato dal marketing – la generazione dei Millennial rappresenta la fetta di popolazione che, più di tutte, è cresciuta in un universo di prodotti e rappresentazioni culturali dominato dalla fantasia di un’eterna gioventù. Siamo cresciuti con MTV e il mito delle high school americane; siamo diventati grandi introiettando modelli televisivi che celebravano l’attitudine irriducibilmente egoista e immatura dei suoi protagonisti, come in Girls, Fleabag e Please Like Me; continuiamo a navigare il presente nutrendoci di prodotti che, mentre affermano di rivolgersi alla Generazione Z, continuano a strizzare l’occhio al nostro vizietto per la gioventù, costruendo fantasie ad hoc per la nostra sete di adolescenza: è il caso di Euphoria o di Olivia Rodrigo.
I Millennial sono anche l’unica generazione associata a un colore, una tonalità che è, di per sé, un manifesto dell’adultescenza: si tratta del Millennial Pink che, come racconta la scrittrice Véronique Hyland nel suo saggio Dress Code: Unlocking Fashion from the New Look to Millennial Pink (la bruttezza della copertina è direttamente proporzionale alla piacevolezza della lettura, giuro) è in realtà un “non-colore”, una sfumatura senza impegno, talmente scialba e ambivalente da risultare sofisticata e versatile. Il Millennial Pink (nome tra l’altro coniato dalla stessa Hyland in un celebre articolo su The Cut) è una rivisitazione del rosa associato agli abiti infantili delle bambine, un colore tenue che più che una scelta cromatica evoca un mood, un filtro esistenziale, un background standard su cui proiettare la propria identità. Non è un caso che, negli anni del suo successo, il Millennial Pink sia stato sfruttato tanto da marchi d’abbigliamento quanto da startup tecnologiche, diventando sinonimo di #girlboss e di attivismo online e trasformandosi nel colore d’elezione per il mondo del packaging, dell’interior design e della moda.
Il Millennial Pink è soprattutto una prima espressione di quello che Hyland definisce “rebranding del reazionario”, ovvero il recupero di una simbologia obsoleta e passatista allo scopo di veicolare i nuovi, mutevoli, linguaggi del contemporaneo. Come sottolinea più volte Hyland nella sua raccolta di saggi, lo stile è una manifestazione superficiale in grado di rivelare le ossessioni nascoste di una società, comprese quelle che di cui ancora non siamo consapevoli. L’adultescenza è una di queste, accompagnata dal ritorno del linguaggio delle sottoculture e delle uniformi “hackerate”: il codice bohémien reinventato da Paloma Wool, lo stile preppy democratizzato dal fast-fashion, il normcore come contraltare del culto della singolarità e l’athleisure come istanza liberatrice per una generazione che lavora a casa o nei bar, piuttosto che nei rigidi ambienti corporate che richiedono uno stile aderente alle gerarchie interne.
Cosa dice la moda di oggi delle nostre ossessioni nascoste?
Continua la prossima settimana…
Grazie per aver letto fin qui! Ecco una lista di cose belle che ho consumato nelle scorse settimane e che vi consiglio di leggere:
Il genere di essay che potrei leggere all’infinito senza stancarmi mai: Last week in Marienbad è il racconto di Lauren Oyler del suo viaggio di coppia nel centro termale visitato da Goethe, Mark Twain e Nietzsche, meglio noto per aver ispirato il capolavoro di Resnais a cui il titolo ammicca, L'Année dernière à Marienbad. Oyler si è annoiata tantissimo.
The Dominance of Platform Foods su Dissent Magazine:
The pleasure platform foods provide makes them hard to resist. They synthesize the two sides of capitalism: the material with imagination. Marketing, branding, and psychology bridge the two sides. Not any burger, pizza, or soda will do; it has to be McDonald’s, Domino’s, or Coca-Cola. We believe that exchanging money for a Happy Meal provides magical qualities—pleasure, joy, camaraderie, satisfaction—otherwise absent from our lives.
Le ere che hanno dominato il 2023 secondo Vulture
Perché facciamo troppi meeting su
Il primo viaggio da sole è indimenticabile: il bellissimo racconto scritto dalla mia amica Francesca Sabatini su Lucy.
Questo:
Ultima cosa, la metto in fondo così chi vuole può andare. Sto leggendo un libro che mi sta piacendo molto. È La città senza cielo di Jean Malaquais. Mi permetto di condividere un estratto che ho amato perché parla di autunno, di nostalgia e di una goccia.
Mi piace la bruma leggera di novembre scollata dal cielo, incollata alle facciate, bruma che impegola con lentezza crepe e fessure. Da bambino mi piaceva appoggiare la fronte sulla finestra battuta dalla pioggia. Mi arrampicavo su una sedia, premevo le labbra contro il vetro, giocavo a bere le gocce che correvano svelte dall’altro lato. Ci parlavo, le chiamavo con appellativi dolci come limonata, granatina, e loro mi erano riconoscenti. Altre volte le facevo gareggiare e compativo quelle che, più piccole, si facevano ingoiare dalle più grosse. Ma, soprattutto, mi attardavo a spiare il paesaggio incastonato nella finestra, un paesaggio che si muoveva e si rigirava dietro a un velo d’acqua. I miei occhi si esercitavano a cogliere le forme delle cose dentro al prisma di una goccia di pioggia, e allora tutto si allungava e si animava, tutto ridiventava colore e movimento, vita e immaginazione. La goccia correva sul vetro; nella scia che tracciava, un carretto si scindeva in quattro, in dieci, c’erano dieci carretti, sopraggiungeva un’altra goccia portatrice di alberi, camini fumanti, lampioni più agili che arti umani. Avevo così la certezza che niente era immobile perché le facciate ridevano sotto i baffi, i sassi facevano piroette, le porte si trasformavano in tappeti volanti, bisogna saper guardare attraverso una goccia di pioggia che viaggia sul vetro di una finestra.
Fatto, alla prossima!