#2 Nuovo Autentico
Perché guardare al turismo ci insegna a riconoscere l’illusione dell’autenticità online
La scorsa settimana è uscito un articolo su Il Tascabile in cui parlo di turistificazione degli spazi digitali, intendendo con questa espressione non tanto il fatto che i contenuti che pubblichiamo oggi hanno sempre più a che fare con il turismo (che comunque è vero), ma che le stesse dinamiche che caratterizzano l’industria turistica IRL influenzano prepotentemente anche il mondo online.
In questo numero della newsletter non voglio riproporvi il ragionamento che trovate nel pezzo, ma concentrarmi sul discorso attorno all’autenticità, che oltre a essere uno degli elementi centrali dell’esperienza turistica è anche il sacro graal che muove il nostro interesse verso l’altro e l’altrove online.
Quando parliamo di digitale e del modo in cui veicoliamo la nostra identità online la questione dell’autenticità diventa impossibile da eludere. Prima di tutto perché l’autenticità è la pretesa più grande che abbiamo nei confronti dei social network: è al tempo stesso ciò che ci aspettiamo dagli altri e ciò che pretendiamo di mostrare di noi stessi, è la caratteristica che cerchiamo nell’esperienza delle piattaforme ed è lo standard a cui ci siamo imposti di aderire quando contribuiamo al successo di quest’ultime con i nostri contenuti. L’autenticità è onnipresente sui social, ma è anche sfuggevole e multiforme, tende a rinnegare ciecamente le sue versioni passate e a presentarsi in configurazioni sempre diverse, in un costante vibe shifting verso il Nuovo Autentico. Solo per fare alcuni esempi, negli ultimi anni le incarnazioni dell’autenticità online hanno mutato forma passando dalla realness a bassa risoluzione alla cringeness più spensierata, dall’attivismo formato carosello a, beh, BeReal.
Quest’ultimo esempio è particolarmente interessante se torniamo a guardare le affinità tra il discorso sul turismo e il discorso sul digitale. Nel pezzo del New Yorker su BeReal che ho linkato qui sopra l’autrice a un certo punto trae queste conclusioni: «Be it on Instagram, TikTok, BeReal, or elsewhere, users cannot help but perform a version of themselves that has been idealized or augmented for public consumption.» Nel 1967 l’antropologo Dean MacCannell diceva una cosa molto simile, riprendendo il concetto di performance sociale di Erving Goffman, per spiegare il modo in cui i territori si vendono a un pubblico di potenziali turisti costruendo un’immagine accattivante (e fuorviante) della propria offerta storico-culturale, artistica e commerciale. Questa autenticità performata è ciò che MacCannell chiama staged authenticity, in cui ogni elemento dell’esperienza è costruito per sembrare vero pur non essendolo affatto. La staged authenticity è la chiave del sistema turistico, ma anche del mondo delle interazioni online: nelle nostre vetrine digitali simuliamo e confezioniamo identità studiate per risultare autentiche secondo i canoni del momento.
Qualcuno allora potrebbe chiedersi perché continuare a chiamarla autenticità, perché prendersi la briga di contribuire ad alimentare la grande bugia dell’autentico online. Io me lo sono chiesta tante volte e ho trovato un’altra risposta interessante nei meccanismi che muovono lo storytelling turistico: l’autenticità porta con sé un dovere morale, il must-see che ci spinge a visitare le attrazioni più famose del mondo in un costante ciclo di verifica della loro aura. Al tempo stesso, online l’autenticità è quella cosa che dà vita al nostro imperativo a postare, a contribuire con l’ennesima rappresentazione della nostra fetta di mondo all’interno dello spazio digitale. La ricerca dell’autenticità e il tentativo di riprodurla è una fissazione moderna, ma è anche un kink di cui siamo più consapevoli di quanto siamo disposti ad ammettere.
Nel periodo in cui ho approfondito il tema del turismo ho imparato una cosa tanto banale quanto illuminante, anzi due: 1. siamo tutti turisti, anche se nessuno vuole essere scambiato per tale e 2. non esiste una massa turistica davvero inconsapevole di trovarsi di fronte a una finzione: ogni turista aderisce implicitamente al gioco di ruolo che gli permette di accedere all’esperienza con spirito di meraviglia e avventura.
Mi piace pensare che entrambe le frasi abbiano valenza anche nel mondo online: in quanto utenti siamo tutti nella stessa posizione quando ci muoviamo nelle piattaforme, a prescindere dal grado di raffinazione dei contenuti che pubblichiamo. Siamo preda delle stesse dinamiche intrusive, partecipiamo a un’industria che ci prende un po’ in giro e che continua a sfruttarci nonostante ognuno di noi mostri un certo grado di consapevolezza al riguardo.
A questo punto, accettare di trovarci in un gioco di ruolo può rappresentare un buon approccio non tanto per chiudere gli occhi di fronte alle brutture algoritmiche, ma per porre fine alla pretesa che ci sia un modo veramente autentico di stare sui social e che questo modo sia superiore agli altri. Forse non sarà la panacea di tutti i mali online, ma mi sembra un modo quantomeno ragionevole di partecipare alla vita digitale senza farci fagocitare dall’ennesima gara alla brandizzazione personale.
Nel perimetro virtuale la staged authenticity è l’unica autenticità possibile, un’autenticità alla cui messa in scena partecipiamo collettivamente, sia quando postiamo un BeReal acchittatissimo dopo aver ignorato la notifica (magari pubblicandolo anche su Instagram dove abbiamo qualche centinaio di follower in più) sia quando pubblichiamo le nostre stories di vita lenta prêt-à-porter. Domani quella stessa autenticità avrà sicuramente assunto una forma diversa, irresistibile e inattesa, un nuovo modo ingannevole e invitante per guardarci attraverso lo schermo mentre performiamo instancabili il copione in divenire della modernità liquida.