in copertina: Noah Verrier
Nell’inverno del 2000 mio padre mi portò a vedere il “Colosseo di lattine”, una minuziosa riproduzione in scala 1/10 dell’anfiteatro romano realizzata utilizzando più di 10 milioni di lattine vuote di Coca-Cola, Fanta e Sprite. Il “monumento” era stato costruito in occasione del Giubileo 2000 con l’intento di promuovere la raccolta differenziata e stimolare l’uso “intelligente” dei materiali riciclati per proteggere l’ambiente.
Vent’anni dopo, quando ho ritrovato le foto della mia visita al Colosseo di lattine, mi sono chiesta che fine avessero fatto tutti quei rifiuti salvati dalla discarica: erano ancora da qualche parte o alla fine erano stati buttati? Il loro utilizzo intelligente era stato retroattivamente vanificato o manteneva ancora la propria promessa di circolarità? Sono bastate poche ricerche per scoprire che il Colosseo di alluminio esiste ancora e che si trova, insieme ad altri monumenti storici ricostruiti con i packaging delle bibite gassate, nella campagna bresciana, dove da anni sorge il Parco dei Grandi Monumenti in Lattine riciclate, all’interno del quale è possibile ammirare milioni di tubi metallici assemblati a imitazione della realtà, emancipati dallo status di rifiuto.
Oggi, l’immagine dei grandi monumenti in lattine mi sembra la perfetta metafora non solo del capitalismo postmoderno, ma anche della decadenza della vita nell’ambiente digitale: il regno dell’enshittification, certo, ma soprattutto una soglia dove gli scarti della nostra vita quotidiana e dei nostri consumi, invece di essere smaltiti, si riproducono e si riconfigurano all’infinito in nuovo materiale da sottoporre alla nostra attenzione. Un purgatorio di rifiuti riciclati che si trasformano in attrazioni per lo sguardo turistico.
Pochi giorni fa, il marchio di abbigliamento tecnico Patagonia ha pubblicato un cortometraggio intitolato The Shitthropocene. Il titolo ammicca alle classificazioni geologiche del sistema terrestre per annunciare l’entrata in una nuova era: quella dell’iper consumismo, del turbo fast-fashion, del monopolio di Amazon, della datificazione totale e dell’incessante produzione di spazzatura derivata dai nostri micro-consumi. Viviamo nel Colosseo di lattine, nel regno del crap-italismo (con tutti i neologismi che esistono mi sono permessa di crearne uno anche io).
Too late capitalism, invece, è la definizione coniata dalla ricercatrice e docente Anna Kornbluh nel suo ultimo saggio, edito da Verso Books, Immediacy, or The Style of Too Late Capitalism per mettere in luce l’inesorabilità del danno inflitto dal capitalismo (e dalle sue evoluzioni nei secoli) all’ambiente e alla società:
The material corollary of this stylized time is the inevitable environmental ruin wreaked by undead zombie capitalism. It is too late. Ecocide has already taken place. Lethal deluges, catastrophic droughts, and heat death are already baked into our future. The earth is hotter now than at any moment in the last 125,000 years. No matter what happens tomorrow, sea levels will rise six to twelve inches over the next two decades. Two billion people worldwide are currently living on land that will soon be either uninhabitably hot or well underwater, or both.
Secondo Kornbluh, viviamo in un’epoca che ha superato i propri limiti e, soprattutto, i propri mezzi. Il medium si è dissolto. Gli artefatti tecnologici sono sempre più capillari, integrati nella nostra intimità, invisibili (basti pensare all’onnipresenza delle piattaforme e all’imminente diffusione dei dispositivi di realtà virtuale e aumentata), mentre la mediazione – intesa come la capacità di costruire uno spazio terzo, un luogo di compromesso e di dialogo tra elementi diversi, ma anche di distanza e riflessione – è una pratica ostacolata e disincentivata nei nuovi contesti commerciali e digitali che abitiamo. Lo stile del ventunesimo secolo è l’immediatezza, l’eterno presente del mercato e dell’io contemporaneo: flessibile e fluido, iperconnesso e istantaneo, immediato nella produzione di nuovi desideri, emozioni (vibes) e consumi.
Spatially, immediacy encloses while delivering everything close: the world at your fingertips; “Let’s go places.” The flexible psychology surfing these urgencies and proximities is self-possessed and transparent: “Speak your truth!” “Live your best life!” “You do you!”—the auto-actualization of human capital.
Nella società dell’immediatezza, l’io perde filtri e contorni, integrandosi nel flusso perpetuo di contenuti e prodotti come un’entità narrativa che si autoproduce costantemente attraverso la rappresentazione incessante e ossessiva della propria esperienza. Kornbluh chiama questo fenomeno “micrologia”: un attaccamento morboso all’esperienza individuale quotidiana, l’arroganza tutta contemporanea di volgere lo sguardo verso la dimensione personale piuttosto che collettiva, di creare relazioni e conversazioni partendo dalla generalizzazione di un aneddoto. In questo contesto, anche l’aspetto più insignificante della vita di tutti i giorni assume importanza, diventando materiale grezzo da manipolare in una narrazione: la propria routine mattutina, il cibo spazzatura consumato avidamente in macchina, un trauma irrisolto, un guizzo filosofico, una foto di venti anni fa davanti a un cumulo di lattine.
Nella dimensione immediata descritta da Kornbluh, le attività umane vengono compresse in un flusso indistinto, mentre le relazioni e lo spazio intimo finiscono per diluirsi e confondersi negli stimoli dell’iper-presente e nell’autofiction di infinite individualità frammentate. Nel secolo dell’immediatezza, tutto è accelerato, privo di filtri, instabile. Quando il medium si dissolve, perdiamo lo spazio di confronto.
In uno studio del 1980 intitolato Do Artifacts Have Politics? il politologo Langdon Winner esplora l’idea che gli artefatti tecnologici possano incorporare specifiche forme di potere e autorità nelle proprie caratteristiche strutturali.
Nel suo lavoro, Winner analizza due tipi di artefatti tecnologici: da un lato, quelli che necessitano di una specifica gestione del potere per funzionare, come la bomba atomica, che impone un controllo autoritario indipendentemente dal sistema politico in cui è inserita, o la rete ferroviaria, che richiede una gerarchia ben definita; dall’altro, tecnologie che, pur non essendo intrinsecamente politiche, possono acquisire significati e funzioni politico-sociali diversi in base al loro design. La maggior parte delle tecnologie rientra in questa seconda categoria. Winner, ad esempio, esamina come alcuni cavalcavia e arterie stradali possano essere progettati per limitare l’accesso a determinate classi sociali, ad esempio costruendo ponti inaccessibili a pedoni e trasporti pubblici per scoraggiare l’ingresso di gruppi economicamente svantaggiati, oppure osserva come nell’industria l’implementazione di certi macchinari in grado di “sostituire” lavoratori qualificati riesca a indebolire le unioni sindacali e scoraggiare gli scoperi. Sebbene ponti e mietitrici meccaniche non siano artefatti intrinsecamente politici, il loro design e il loro utilizzo possono avere conseguenze significative.
Consciously or not, deliberately or inadvertently, societies choose structures for technologies that influence how people are going to work, communicate, travel, consume, and so forth over a very long time. In the processes by which structuring decisions are made, different people are differently situated and possess unequal degrees of power as well as unequal levels of awareness.
In un’era segnata dai bias algoritmici, non ci sorprende che il design di certe tecnologie possa eserciare un’influenza socio-politica su determinati gruppi sociali, ma cosa succede quando applichiamo il discorso di Langdon Winner a un medium ancora più effimero e al tempo stesso più pervasivo delle stringhe di codice? Nel tempo disintermediato e accelerato del too late capitalism, il problema non è più come vengono modellate piattaforme e social media, ma la nostra stessa attenzione, che diventa il medium per eccellenza da plasmare, lo spazio terzo colonizzabile, il ponte tra l’individuo e il mondo da riconfigurare per ottenere profitto economico e controllo sociale.
Un recente articolo del New Yorker mette in luce i problemi dell’attention economy e il recente dibattito che vede teorici e studiosi dividersi nel tentativo di comprendere e misurare come le nuove tecnologie digitali stiano modellando la nostra memoria, la capacità di concentrazione e la qualità del nostro processo decisionale, soprattutto in fatto di consumi.
Nell’approfondimento, l’autore Nathan Heller analizza i diversi significati che il termine “attenzione” ha assunto nel corso della storia della cultura occidentale e il suo impatto sulla società: prima di essere vista come una risorsa da quantificare e sfruttare per l’analisi dei dati e la spinta ai consumi, l’attenzione era considerata uno spazio intermedio, relazionale, capace di connettere elementi eterogenei attraverso uno stato di disponibilità e ricezione, un’infrastruttura interiore in grado di superare lo sguardo per dialogare direttamente con i nostri desideri e le nostre preoccupazioni.
Se l’attenzione è un medium, è anche il terreno di principale conflitto per gli interessi commerciali che vogliono rimodellare le nostre intenzioni spingendoci inesorabilmente verso l’iperconsumo e lo scarto, lo Shitthropocene e il crap-italismo. Nel documentario realizzato da Patagonia, la scrittrice Sofi Thanhauser, autrice di Worn: A People’s History of Clothing, sottolinea come una delle più grandi rivoluzioni nell’accelerazione dei consumi sia stata l’introduzione del linguaggio pubblicitario e del marketing, il cui compito è proprio quello di sollecitare la nostra attenzione per rimodellare il nostro rapporto con il sistema delle merci. Queste strategie trasformano la nostra insoddisfazione e il nostro disagio in desiderio di ricompense materiali, simboli di status, potere e comfort, e alimentano la FOMO creando un senso di scarsità che, in realtà, non è altro che sovrabbondanza immediatamente disponibile. “Ora o mai più”, “solo per le prossime 24 ore”, sono espressioni che risuonano all’infinito.
Come liberare la nostra attenzione dall’assillo dell’immediatezza? Come possiamo riconquistare quella mediazione essenziale a prendere le distanze dal flusso del mercato e dall’incessante scorrere dei contenuti? L’attenzione è un medium politico? Sono domande alle quali molti stanno tentando di rispondere. Dalle proposte di riscoperta dell’improduttività ai tentativi di resistenza passiva, fino alle iniziative virtuose di brand e imprese che puntano a rafforzare la propria immagine promuovendo un consumo consapevole e il detox digitale. Il documentario prodotto da Patagonia ne è un chiaro esempio, così come il boring phone lanciato dall’Heineken in occasione della Milano Design Week.
Nel suo articolo sul New Yorker, Heller racconta la misteriosa storia dell’Order of the Third Bird, un presunto gruppo di persone anonime che si raduna in segreto per esercitare azioni di attenzione collettiva e contemplativa verso le opere d’arte.
In base a quanto riportato, l’Ordine prenderebbe ispirazione da un racconto apocrifo su Zeuxis, secondo cui il pittore, dopo aver dipinto un quadro raffigurante un ragazzo con dell’uva, si sarebbe nascosto per osservare la reazione di tre uccelli che si erano avvicinati all’opera, attratti dai suoi colori. Secondo la storia, il primo uccello tenta di beccare l’uva, convinto di trovarsi di fronte al vero frutto, il secondo, invece, si spaventa vedendo il ragazzo e vola via, mentre il terzo si ferma davanti al dipinto e inizia a contemplarlo. Questo terzo uccello, che si ferma a riflettere sull’opera d’arte senza esserne ingannato né terrorizzato, ha ispirato le azioni dell’Ordine, durante le quali un gruppo di osservatori si impegna a radunarsi attorno a un’opera d’arte (spesso poco conosciuta o secondaria) per prestare attenzione e produrre una riflessione partendo dalla sola osservazione dell’oggetto, senza prendere in considerazione le nozioni che si hanno già a disposizione sull’autore e la storia dell’opera.
It is only when I give the canvas my attention (bringing to it the cargo of my particular past, my knowledge of the world, my way of thinking and seeing) that it becomes an art work. That doesn’t mean that van Gogh’s feats of genius are imagined, or my own projection. It means only that an art work is neither a physical thing nor a viewer’s mental image of it but something in between, created in attentive space.
L’esperienza dell’Ordine mi ha riportato alla mente la distinzione tra “meraviglia” e “risonanza” operata dal critico letterario Stephen Greenblatt per analizzare il modo in cui i musei contemporanei presentano gli oggetti esposti ai visitatori. Mentre la risonanza è la capacità di presentare gli artefatti culturali in un assetto in grado di evocare nell’osservatore le forze culturali e storiche da cui sono emersi (mettendo in evidenza il contesto), la meraviglia è una strategia espositiva incentrata sullo stimolo di un senso di stupore e di unicità in chi osserva, cancellando il contesto circostante e catturando completamente l’attenzione dello spettatore su oggetti isolati l’uno dall’altro, ognuno con la propria aura e la propria “micrologia”.
Come osserva Greenblatt, l’effetto di meraviglia si ottiene adottando strategie espositive simili a quelle utilizzate nel commercio: il design dello spazio è pensato per sollecitare la stessa fantasia che alimenta la sete di nuovi prodotti, un desiderio immediato che viene consumato e scartato per passare al mirabilia successivo.
Modern museums at once evoke the dream of possession and evacuate it.
Dalla prospettiva di Greenblatt, meraviglia e risonanza possono funzionare solo lavorando insieme: la prima per destare l’attenzione, la seconda per radicare la lettura in una storia socio-culturale più complessa e profonda del semplice fascino esercitato dall’oggetto culturale. L’Ordine del Terzo Uccello esercita un equilibrio molto simile, in contrapposizione con le pratiche attraverso cui l’attenzione viene quotidianamente sfruttata nei media contemporanei.
Forse, se avessimo osservato il Colosseo di lattine con la stessa dose di consapevolezza, interrogandoci sulla sua risonanza anziché lasciarci sedurre dalla meraviglia di un monumento fatto di scarti, avremmo riconosciuto i segni premonitori del crap-italismo già qualche anno fa.
Di fronte al caos e all’impotenza causati dai fenomeni che ci assediano, ci rifugiamo nell’immediatezza, adottandola come unico stile di vita, cercando nella micrologia uno strumento per navigare il presente attraverso l’unica cosa che ci rimane, l’esperienza individuale. Nonostante le definizioni, anche Kornbluh è convinta che non sia davvero troppo tardi. Dobbiamo solo individuare una crepa nel flusso del perpetuo presente in cui siamo intrappolati. Per riuscirci, non dobbiamo lasciarci ingannare o sopraffare dal terrore, ma capire come rallentare e osservare, prestare attenzione.
💧 Consigli e cose belle al volo (se siete arrivati sani e salvi fin qui):
Cosa sto leggendo: Fare mondi di Ian Cheng e Introduzione alla realtà di Edoardo Camurri, entrambi editi da Timeo.
Non funziona benissimo, ma l’idea è incredibile. Geocitiesizer trasforma i siti dell’internet di oggi in website con l’estetica geocities.
Un articolo su Fast Company si interroga sulla possibilità di iniziare a insegnare nelle università come lavorare nella gig economy, piuttosto che limitarsi a preparare studenti e studentesse a intraprendere i lavori tradizionali.
Everything’s a cult now su Vox, ovvero come cambia la società nel passaggio alla post-monocultura.
LinkedIn inserisce i minigame nella sua piattaforma.
Piccola guida alla misteriosa carriera di t e l e p a t h , artista vaporwave, su Il Tascabile.
I neologismi del lavoro che cambia:
A proposito di lavoro. Sono stata invita a condividere la mia esperienza e le mie riflessioni sul mondo del lavoro contemporaneo durante una puntata del podcast Cocci, a cura di Scomodo e No Name Radio. La trovate qui.
Ci sentiamo fra due settimane!
Grazie Priscilla per questa riflessione diffusa, soprattutto per il ragionamento di Stephen Greenblatt su 'risonanza' e 'meraviglia': non ci avevo mai pensato, mi hai aggiunto un pezzetto di sguardo sul mondo.