Bentrovati/e 👋
Nella newsletter di oggi trovate: l’estratto di un mio articolo uscito ieri su Link idee per la tv sul ritorno dei programmi fedeltà e sul modo in cui riescono a colpire il nucleo più duttile e sensibile delle nostre fragili esistenze consumiste + una lista di letture che, per fare una cosa diversa, ho deciso di dedicare interamente al tema supermarket. Buona lettura!
Questa estate ho acquistato un paio di scarpe grazie all’Intelligenza Artificiale. Sono scarpe vere, non uno di quei surrogati digitali che fino a qualche anno fa promettevano di sconvolgere il mercato della moda trasformando l’abbigliamento in merce immateriale. Le ho acquistate su un noto e-commerce internazionale, convertendo in un voucher i punti accumulati attraverso un programma fedeltà promosso da Microsoft. Trecento giorni di allenamento del motore di ricerca Bing, duecentocinquanta punti al giorno. Uguale: cinquanta euro di spesa su Zalando. Non il massimo della convenienza, ma per qualche motivo ero determinata a scoprire che effetto mi avrebbe fatto farmi pagare le scarpe da una big tech. Nonostante mi sia sempre dichiarata contraria ai metodi subdoli, spesso dissimulati attraverso la gamification, con cui le aziende tecnologiche inducono gli utenti a svolgere piccole mansioni finalizzate all’addestramento dell’algoritmo, l’idea di una ricompensa mi ha indotta a interrogarmi sulla possibilità, seppur infima e marginale, di una convenienza per l’utente. Forse è ancora presto per pretendere la piena automazione, ma almeno possiamo ottenere un paio di sneakers in cambio di task quotidiani dall’impegno irrisorio.
Ogni giorno ero chiamata a rispondere a quiz su temi di attualità o intrattenimento ed effettuare almeno trenta ricerche sul motore per ottenere il massimo del punteggio. Poiché il training di Microsoft si basa sulla quantità delle informazioni ricevute, la qualità non è lontanamente contemplata né controllata: ho passato più di un anno della mia vita a digitare quotidianamente query tanto banali quanto casuali, come “cane”, “gatto”, “cacca”, “pasta fredda” e “meteo”, per poi chiudere il browser di Microsoft (e riaprire Chrome) non appena accumulati i punti desiderati. Non so se ne sia valsa la pena, ma se c’è una cosa che ho imparato in quelle settimane è che la distopia potrebbe essere più noiosa di quanto si pensi. Anche se non ho alcun rimorso per aver acquistato le mie nuove scarpe usando l’IA, ogni volta che le indosso non posso fare a meno di chiedermi se sia più spaventosa la prospettiva futura di dover sopravvivere combattendo robot ribelli o quella di passare il resto della vita a digitare “cane”, “gatto”, “cacca” in cambio di prodotti.
I programmi fedeltà non sono più gli stessi. O meglio: sono ovunque, e ogni azienda li reinterpreta a proprio piacimento. Non bastano più i punti del supermercato, i bollini della Mulino Bianco e gli sconti fedeltà sul carburante, oggi ogni attività commerciale offre un sistema di ricompense personalizzato in cui il denaro speso viene tradotto in valute digitali arbitrarie e fantasiose. Acquistando da IKEA, per esempio, si collezionano le brugole, il corrispettivo virtuale di quelle chiavine esagonali che l’azienda include sempre nei propri pacchi per facilitare il montaggio fai-da-te. Spesso però i punti vengono rappresentati da entità astratte, quasi magiche: ci sono le stars di Starbucks, i likes di Mango, i dots di Max&Co. e i kisses di Kiko. Non è un caso che si tratti di marchi con una clientela principalmente femminile: le raccolte premi sembrano suggerire che non stiamo spendendo soldi, ma accumulando stelle e apprezzamenti che renderanno la nostra vita più piacevole e luminosa. Diverso, invece, è il vocabolario dei marchi che si focalizzano sulle performance atletiche o le attività outdoor: The North Face, per esempio, distribuisce peak points, mentre le app di allenamento Nike regalano badge per ogni traguardo raggiunto, i cui nomi spesso evidenziano l’aspetto emotivo della motivazione: “True Runmance”, “Resolution”, “First Date”.
🥫 Supermarket compilation 🥫
Iniziamo con la mia cosa preferita: la lista della spesa di Michelangelo.
Sul New Yorker si può leggere l’estratto di un saggio su cibo, cultura e refrigerazione all’interno del quale, ad esempio, si spiega perché da quando esiste il frigorifero i cibi sono più zuccherati:
«Cold may also have made food and drinks sweeter—particularly in the ice‐obsessed United States. At least three of our basic taste receptors—sweet, bitter, and umami, or savory—are extremely temperature sensitive. When food or drinks cool the tongue to below fifty-nine degrees, the channels through which these receptors message the brain seem to close up, and the resulting flavor signal is extremely weak. This is why a warm Coca-Cola or a melted ice cream tastes sickly sweet: because they’re intended to be consumed cold, they need to contain too much sugar in order to boost the signal, and to register in our brains as sweet at all.»
Ogni epoca ha le sue attrazioni turistiche, prevedibilmente le nostre sono i supermercati.
Una bella playlist per fare la spesa e sentirsi un po’ come un avatar in The Sims:
Un elogio elegantissimo e molto divertente di Felipe Fernàndez-Armesto al cibo in lattina:
«I weep when I contemplate the decline of the can. All forms of processing for conservation seem magical to me, changing ordinary foods into something rich and strange. Petits pois are preferable from a tin, I think, to their uncanned equivalents as accompaniments for crisp duck or lamb, because the yielding structure complements the carapace of the roast. Who will dissent from Jerome K. Jerome’s praise of canned pineapple? I won’t say that tinned sardines are better than fresh: they are incomparable on their own terms. Confit de canard, for most home cooks, is, like Boston-baked beans, best from a tin. Some recipes properly demand condensed milk. Yet the market has turned from tinning.»
Un artista ha collezionato più di settemila liste della spesa abbandonate mentre lavorava per un supermercato. Ne ha selezionate cinquantadue per farne una mostra.
Il supermercato del papa:
Il complesso e assurdo rapporto tra alta moda ed estetica della grande distribuzione.
Corey Mintz scrive su The Warlus della crisi dei supermercati in Canada ma, soprattutto, delle implicazioni sociali della perdita di spazi fisici dove acquistare il cibo che mangiamo quotidianamente:
«Is the act of gathering food—seeing it and smelling it and touching it, adjusting your shopping list as you go because the apples look particularly nice or the celery disappointingly wilted—an essential aspect of human life? Or are supermarkets, where we make physical and social contact with food and people—a quaint twentieth-century anachronism, like vinyl or democracy?»
I supermercati hanno il loro fascino, ma nascondono anche un mondo a dir poco problematico, dal trasporto delle materie prime allo sfruttamento del lavoro che attraversa l’intera filiera, per non parlare dell’impiego di sostanze dannose nelle preparazioni e nei packaging alimentari. In una compilation che parla di luoghi dove compriamo il cibo mi sembra doveroso citare il progetto Sfusitalia e la sua mappa per trovare negozi sfusi e zero waste in tutto il paese.
I supermercati in America a pasqua:
Su Link idee per la tv Arnaldo Greco ha confezionato dieci cartoline (articoli brevi) dedicate ai prodotti più assurdi che sono circolati nei supermercati italiani e che intersecano gdo, intrattenimento e cultura pop.
Infine, la testata Slate ha condensato in un video le migliori scene cinematografiche ambientate in un supermercato:
Ci sentiamo presto! 👋