Ciao a tutti/e 👋
È un po’ che non ci sentiamo. Questa è l’ultima goccia dell’anno. Come sempre questo spazio non prende in considerazione calendari e scadenze, ma spero di risentirvi presto.
Una cosa che mi sta procurando un certo fastidio è la presenza sempre più invasiva di bot tra i miei subscriber e tra le newsletter che consigliano Una goccia. Vorrei capire cosa sta succedendo e se esistono soluzioni al problema. Se avete consigli e informazioni utili e vi va di condividerli con me potete scrivermi qui. Grazie.
Buona lettura e buon riposo invernale!
Quando avevo sette anni mia madre mi insegnò a confezionare il mio primo regalo di Natale finto. Era un compito che di solito riservava per sé stessa, dato che per gli incarti aveva sempre avuto un certo talento, mentre io e mio padre ci limitavamo a osservare, intervenendo solo quando richiesto. Assistevamo in silenzio a quella lunga operazione chirurgica, porgendo forbici e nastri da arricciare, oppure spezzando sottili lingue di scotch che lasciavamo penzolare, appese per un’estremità, sul bordo del tavolo su cui lei portava a termine la sua delicatissima missione natalizia.
I regali finti finivano sempre per essere più belli di quelle veri. Dentro, nascondevano l’involucro vuoto di elettrodomestici obsoleti, scatole di dolci industriali consumati a colazione, sagome di polistirolo per imballaggi, ma fuori emanavano il bagliore opalescente e surreale dei fogli metallici che mia madre ripiegava con gesti sicuri, tracciando linee nette perfettamente simmetriche che li facevano aderire al pacco come una seconda pelle. Il rapido fruscio delle forbici che scivolavano sul nastro satinato segnalava la fine del procedimento, che terminava con una cascata di riccioli colorati sulla cima della confezione, da cui pendeva un sottile filo dorato attaccato a un bigliettino di cartone bianco. Il bigliettino era sempre vuoto, i regali finti non erano per nessuno. Al tempo stesso, si sarebbe potuto dire che erano per tutti.
Erano per l’atmosfera. Come erano per l’atmosfera tanti altri piccoli dettagli che facevano sembrare la casa più piena e felice durante il periodo festivo: le casupole di cartapesta realizzate da mio nonno per il presepe, in cui aveva ricreato un arredamento di tutto punto, visibile solo a chi decideva di affacciarsi con lo sguardo a una delle finestre grandi quanto un polpastrello; la neve artificiale sul finto praticello del presepe e sugli aghi di plastica del pino natalizio, che realizzavamo sbriciolando nuvole di ovatta e nebulizzando il liquido bianco e pastoso di una bomboletta spray; gli scrigni di alluminio dei panettoni divorati nelle vigilie precedenti, che ora posavano vuoti in salone esercitando alla perfezione il loro inganno, le apparenze da prelibatezza pronta da mangiare ancora intatte, come se un odore fantasma di burro e canditi fosse rimasto appiccicato al loro guscio di metallo. In quel periodo, simulare l’abbondanza non sembrava una cosa pacchiana, ma qualcosa di cui prendersi cura, per questo il calore dei regali finti e di tutte le altre cose finte finiva sempre per trasformarsi in un calore reale.
Ancora oggi, l’idea che la felicità non provenga solo dall’attenzione che diamo alle cose importanti, ma anche a quelle inutili, come i dettagli scenografici, è un’impressione che non riesco a scrollarmi di dosso. Sarà per questo che ogni anno, verso la fine di novembre, quasi rispondendo a un richiamo primitivo, inizio ad andare a caccia di regali finti, piccole contraffazioni di felicità, come miniature e riproduzioni di cose belle e rassicuranti com’era bella e rassicurante l’abbondanza negli anni Novanta.
Il ceppo di un albero che arde lentamente in un caminetto televisivo è un regalo finto che mi concedo spesso. Non ha lo stesso sentore affumicato e pungente di quello che accendeva mio nonno quando trascorrevamo le feste in montagna, né è in grado di imprimere sul volto la patina calda e arrossata delle costanti vampate a cui ci si espone rimanendo a osservare le fiamme che divorano il legname, ma almeno posso rievocarlo quando voglio, mentre mio nonno e la casa in montagna no. Quel legno è arso per sempre.
Anche i video con ambientazioni accoglienti e musica strumentale sullo sfondo diventano parte del mio paesaggio quotidiano non appena le giornate iniziano ad accorciarsi. D’altronde davanti al mio palazzo c’è solo un altro palazzo, per questo ogni anno scelgo di trasformare lo schermo della mia televisione in una finestra affacciata su un Central Park innevato di una neve fittizia e incantevole, o sull’animazione in loop di un piccolo bistrot delicatamente illuminato dai raggi del sole invernale che trapelano da una vetrata, fondendosi con il vapore esalato da tazze ricolme di liquidi fumanti su tavoli di legno in attesa dei propri avventori. Gli avventori non arriveranno mai, perché le tazze non sono per nessuno. Sono per l’atmosfera.
Molti di questi video traggono le proprie ambientazioni da luoghi che preesistono nell’immaginario audiovisivo, come le abitazioni confortevoli di Animal Crossing o i villaggi sgranati e geometrici di Minecraft. Ci sono anche lunghe animazioni che ritraggono momenti di una quotidianità immaginaria nelle sale comuni di Hogwarts e tra le suggestive stradine di Hogsmeade, ma su quelle riesco a soffermarmi solo per pochi minuti, prima che una penetrante fitta al costato mi sorprenda con dolore, costringendomi a volgere lo sguardo verso qualcosa di meno reale di quella precisa finzione. Anche quel legno è arso per sempre, solo che da un incendio diverso.
Negli ultimi mesi ho imparato a togliere la parola escapismo dal mio vocabolario, perché mi sembra che non serva a niente. La stessa cosa vale per nostalgia. Sono parole che non spiegano nulla, perché i fenomeni che cerchiamo di comprendere quando le utilizziamo sono molto più intimi e particolari di un banale tentativo di evasione dentro una realtà alternativa o un ricordo deformato del passato. Nel modo in cui abbiamo imparato a utilizzarle, almeno, non spiegano perché, ad esempio, molti di noi subiscano l’effetto contemporaneamente magico e dolente di una madeleine proustiana quando un’immagine virtuale ― sia essa fantastica o digitale ― ci colpisce con la stessa potenza di un odore familiare o di un luogo caro. O quando un certo oggetto, inserito nella realtà, crea una finzione che diventa più potente delle cose che riteniamo concrete e reali, finendo per creare un’alternativa per quella stessa realtà: sotto il nostro albero di Natale c’era davvero un profluvio di regali bellissimi; il paesino del presepe era veramente animato da piccole forme di vita nelle casine minutamente arredate; siamo davvero stati ad Hogwarts, nelle accoglienti abitazioni di Animal Crossing e nei villaggi geometrici di Minecraft, una parte di noi vive ancora lì.
Ci sono poi delle parole più complesse, e forse un po’ ingombranti, che spiegano meglio cosa succede quando i sensi incontrano la finzione finendo per creare uno spazio relazionale ed emotivo che agisce sulla realtà: non reale, ma para-reale. Nel suo manifesto del para-reale, il ricercatore e designer Cade Diehm definisce questa condizione come “uno spazio intermedio” nella società digitale. Spiega:
Between the digital realm and our physical world is a third space — hybrid, ephemeral and poorly understood. You may have encountered it recently: an uncanny or unreal sense of almost touching something in a VR scene, an impossible fatigue during a Zoom call that leaves you floating like a balloon full of lead, or an eerie unease at the accuracy of a targeted advertisement. For decades, this in-between space has influenced the digitised society unseen. We call it the Para-Real, an emotional and transformative state that emerges when the electronic and the real collide, and — just for a moment — creates a space that can only exist at the exact second where platforms and atoms operate in absolute parallel.
Secondo Diehm il para-reale è un senso fantasma che abbiamo sviluppato all’interno delle nostre interazioni digitali, ma io mi spingerei di poco oltre per dire che ha a che fare con tutta la dimensione virtuale e immaginaria: i nostri sensi fantasma percepiscono e registrano esperienze, che poi si trasformano in ricordi, quando giochiamo a un videogioco o viviamo un’esperienza di realtà aumentata, così come quando ci immergiamo in una narrazione televisiva o interagiamo con le illusioni a cui la società dei consumi ci ha in qualche modo assuefatti.
C’è poi un’altra parola che mi piace ancora più di escapismo, nostalgia e para-reale ed è micro-utopia. L’artista John Baldessari la utilizzava nel volume dedicato al cibo, l’arte e la cultura americana, Yours in food, per descrivere come la cottura di un uovo sodo lasciato sobbollire per sei minuti e trenta secondi esatti rappresentasse il suo rituale mattutino preferito. Ciò che rendeva quel rituale bello, importante e memorabile, però, non era l’uovo in sé, ma l’atmosfera: i dettagli dell’arredamento della casa, del paesaggio dalla finestra, delle cose che registriamo attorno a noi quando separiamo un momento dagli altri momenti. Per pochi minuti, Baldessari smetteva di vivere la realtà così com’era per assaporarne una versione perfetta e minuta, una micro-utopia. È una finzione, così come lo sono i ricordi e le illusioni a cui restiamo agganciati per rendere l’esistenza un po’ più sostenibile.
Romanticizzare è un altro termine che spero di non portare con me il prossimo anno, perché finisce inevitabilmente per banalizzare l’atto di depositare un sentimento in un luogo degno di essere esplorato, che spesso coincide con il luogo delle bugie che ci raccontiamo, delle illusioni di cui ci prendiamo cura, dei gesti e delle immagini che vogliamo a tutti i costi trasformare in esperienze, e delle esperienze che non vogliamo affidare alla memoria, allora le confezioniamo in rituali, riproduzioni, totem inutili, decorazioni con un significato. Quel luogo fantasma, fatto di sensi fantasma e di cose consacrate all’atmosfera, è un luogo invece che dovremmo imparare a frequentare e a interrogare più spesso, perché è lo spazio in cui si incontrano non solo il reale e il virtuale, ma anche la vita e tutte le sue perdite, il contenuto dei nostri desideri e ciò che non esiste più o non è mai esistito. Una vita bella e minuta, una stagione perfetta, un fuoco che brucia per sempre.
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