#7 Un quartiere non è una personalità
La visione determinista della città e la rimozione del conflitto
Di notte il mio quartiere sembra un sogno di Mevlidò, uno scenario liminale immerso nell’atmosfera apocalittica e surreale tipica dei romanzi di Volodine. Quando il sole tramonta, le strade si svuotano e le imponenti cellule di vetro e metallo che racchiudono gli uffici aziendali diventano scheletri d’alluminio senza vita. Il processo di trasmutazione si estende a macchia d’olio, travolgendo le vie limitrofe al mio appartamento e le aree pedonali nascoste tra i palazzi, che si trasformano in un cimitero di carrelli abbandonati, mucchi di monopattini elettrici collassati su sé stessi e scarti di fast food trascinati dal vento.
A illuminare il paesaggio restano solo le insegne al neon dell’Ipercoop e di un Burger King, le cui lettere lampeggiano a intermittenza, avvolte nei densi effluvi emessi da una torre evaporativa situata a pochi metri di distanza. Ogni cosa sembra il residuo inanimato di una modernità appartenuta a un’altra epoca. È come vivere in un film di Terry Gilliam, solo che al posto delle architetture soffocanti delle metropoli distopiche immaginate dal regista, c’è un noiosissimo quartiere sprawl, per lo più benestante, accuratamente nascosto tra l’EUR e Spinaceto.
Di giorno il mio quartiere torna a rimandare l’immagine che vorrebbe sempre offrire di sé stesso. Il sole cancella ogni contraddizione e il capitalismo riprende a pulsare nelle vene dei centri commerciali e degli uffici del business park, le cui superfici specchiate emanano nuovamente splendore, illuminando gli edifici circostanti: i palazzi in cortina, i sushi all you can eat, le farmacie di ultima generazione, i centri commerciali e l’insensato concentrato di estetisti, parrucchieri e club sportivi che da anni contribuisce a trasformare il quartiere nel perfetto render del lifestyle moderno. Le miniature di questo plastico indossano piumini Moncler, scarpe Hogan e abiti che non trasgrediscono mai lo spettro dal beige al blu.
In Tutto quello che so sull’amore, Dolly Alderton definisce “aspirapolveri per le identità” i posti come questo: luoghi dove dormire e acquistare, sobborghi senza arte, senza cultura, senza carattere. Come lei, anche io ho trascorso i miei vent’anni alla ricerca di un nuovo spazio da occupare nella mia città, un quartiere dove rivendicare senza compromessi i miei valori e la mia personalità, dove incontrare persone come me. È solo dopo averlo trovato, e dopo aver dovuto affrontare la decisione di lasciarlo per tornare a vivere qui, che ho iniziato a riflettere sul rapporto tra ciò che sono e il luogo in cui vivo.
L’idea che l’ambiente urbano abbia un forte impatto sulle condizioni di vita di un individuo è stata al centro degli studi urbanistici e socio-economici sin dalla fine del XIX secolo, ma è solo all’inizio degli anni Duemila che la correlazione tra urbanistica e personalità inizia ad acquisire una nuova dimensione.
Mentre tra l’Ottocento e il Novecento, infatti, questo termine veniva per lo più utilizzato per descrivere l’influenza delle città industriali sullo sviluppo dell’uomo moderno (come nel caso delle personalità marginali di Park e della personalità urbana di Simmel), è con il teorico Richard Florida che il rapporto tra spazi urbani e personalità diventa il presupposto per raccontare la nascente attitudine alla città incarnata da una nuova coorte sociale: l’innovativa e talentuosa classe creativa.
Quando ho messo in atto la mia fuga dall’EUR dieci anni fa, non avevo la più pallida idea di chi fosse Florida, ma se ne avessi sentito parlare probabilmente non avrei avuto problemi a riconoscere le mie ambizioni nella sua descrizione di questa nuova classe. Nel suo testo del 2002, L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professione, Florida scrive:
«La classe creativa include le persone che si occupano di scienza e di ingegneria, di architettura e di design, di istruzione, di arte, di musica e intrattenimento, la cui funzione sociale è creare nuove idee, nuove tecnologie e nuovi contenuti creativi.»
Per Florida la creatività è la principale risorsa economica del XXI secolo, un tipo di merce che non può essere ricavata industrialmente, ma che risiede in una precisa qualità umana. Per estrarre questa qualità e trasformarla nel carbone della nuova era, la classe creativa va stimolata e alimentata in un ambiente protetto, costruito per assicurare gli incentivi e i comfort necessari alla produzione di capitale creativo: la metropoli contemporanea. In un altro frammento del suo libro, Florida spiega:
«La capacità di una città di attrarre e trattenere la classe creativa dipende in gran parte dalla sua capacità di fornire un ambiente sociale e culturale accogliente e inclusivo.»
Accoglienza e inclusività, libertà e cultura. Nel mondo di Florida la città prospera sotto il segno di valori che perdono i propri connotati politici per diventare incentivi commerciali per le amministrazioni pubbliche e private. È lo stesso principio su cui si basa la gentrificazione: l’esigenza di coltivare l’impeto creativo della nascente classe, diventa il cavallo di troia per la “riqualificazione” di intere aree cittadine, le cui abitazioni, attività commerciali e infrastrutture vengono rinnovate per accogliere un gruppo di abitanti con maggiore capacità di spesa rispetto a quello già insediato, che si trova costretto ad andarsene.
Se dieci anni fa non avrei avuto problemi a riconoscermi nella classe creativa di Florida, avrei però quanto meno cercato di contestare il mio ruolo all’interno del processo di gentrificazione dei quartieri hip in cui avevo trovato rifugio. Quella che per me era un’esigenza identitaria, per il processo di sviluppo urbano neoliberista era un’opportunità da cogliere. È qui che subentra la personalità come strumento di marketing dei quartieri.
Nel 2008, Florida pubblica una guida per aiutare le persone a scegliere la città in cui vivere in base alla propria personalità. Il titolo è Who’s Your City? e nell’introduzione il teorico chiarisce che ogni città possiede un suo carattere e che è importante saper scegliere il posto giusto allo scopo di trovare il proprio “cluster”, un gruppo di persone con cui condividere interessi e gusti, con cui prosperare. L’espressione precisa che utilizza è: «The key is to find a place that fits you», il posto su misura, come un servizio o un paio di pantaloni.
Pochi anni dopo, un gruppo di ricercatori utilizza un’espressione molto simile in un paper che si propone di mettere in luce il legame nascosto tra i quartieri di Londra e le diverse personalità degli individui che li abitano. L’idea alla base è quella del person-environment fit, secondo cui il match tra personalità e ambiente è l’elemento che determina la soddisfazione personale e la propensione ad aderire alle norme.
L’aspetto interessante della ricerca è che si basa sulla teoria dei Big Five, ovvero dei cinque tratti della personalità individuati negli anni Novanta per guidare gli studi nella lettura delle principali attitudini individuali. Le assi su cui si muovono i cinque tratti sono quelle dell'estroversione vs. introversione, della gradevolezza vs. sgradevolezza, della coscienziosità vs. negligenza, del nevroticismo vs. stabilità emotiva, dell’apertura mentale vs. chiusura mentale. Non si rimane stupiti nel leggere che, secondo lo studio, le personalità che presentano maggiormente i tratti dell’estroversione e dell’apertura mentale preferiscono vivere in zone centrali, vivaci e popolate, mentre quelle che mostrano una maggiore attitudine verso la gradevolezza e la stabilità emotiva, prediligono le zone residenziali considerate più tranquille e sicure.
Anche qui non c’è traccia di complessità. Coerentemente con quanto afferma Florida, la personalità sancisce il legame con il territorio in termini deterministici e univoci: i desideri degli individui sono tagliati con l’accetta, mentre il territorio viene ripulito da qualsiasi forma identitaria che non serva la funzione di incontrare i requisiti standard. Il rapporto tra individuo e ambiente perde le sue radici e si riduce alla scelta di un carattere bidimensionale a cui far corrispondere un set di interessi e attitudini urbane.
Nella sua guida, Florida segue lo stesso percorso, associando agevolmente persone amanti dell’arte con ambienti vibranti e artistici o individui più inclini all’equilibrio con quartieri a basso tasso di criminalità. Da questo punto di vista, la personalità riduce gli individui a un’interpretazione statica e inequivocabile e diventa lo strumento per la costruzione di filter bubble urbane analizzabili e vendibili sfruttando gli stessi precetti dell’archetypal branding, un approccio alla creazione di brand che si basa su modelli simbolici universali per evocare aspetti comuni dell’esperienza umana. Prendendo come esempio Roma, l’archetipo del Fuorilegge rivoluzionario sceglierà di vivere al Pigneto, il Re/Padre nel centro storico e l’Uomo Comune nei sobborghi. Non andiamo troppo lontano se pensiamo anche alle campagne multi-soggetto di brand e app che cercano di vendere i loro servizi a un determinato target, chiamando direttamente in causa “l’anima del quartiere” in cui vive: street style per i giovani alternativi della Garbatella, vino biologico naturale per le donne borghesi di Roma Nord.
È quasi scontato pensare che un giorno anche il metaverso verrà costruito sulla base degli stessi principi (d’altronde Meta è uno dei clienti dello studio di consulenza di Florida, il Creative Class Group), mentre gli attuali progetti di smart city già incorporano una simile ideologia nella progettazione dei quartieri al loro interno: le librerie diventano Learning Zones, i quartieri per lo svago Entertainment Districts. Chi legge deve andare da una parte, chi si vuole divertire dall’altra, come se attività umane quali la lettura e il divertimento non possano prendere vita ovunque, seguendo traiettorie del tutto arbitrarie e contaminandosi con l’ampio spettro di modi, del tutto personali ed eterogenei, di fare esperienza della città.
Ovviamente, desiderare di vivere in un luogo che sia più di un semplice dormitorio, magari verso il quale provare un senso di autentica appartenenza, è un sentimento nobile, oltre che naturale. Il problema non è il nostro desiderio, ma il modo in cui questo viene strumentalizzato per rimuovere la complessità dagli ambienti urbani e rendere la produzione di capitale più fluida.
Nel suo saggio Melanconia di Classe, Cynthia Cruz racconta la morte simbolica della working class in una società neoliberista che, negando l’esistenza delle classi sociali, smette di riconoscere anche quella dei lavoratori proletari, precari e sottopagati. Florida conferma le osservazioni di Cruz quando sostiene che la classe creativa è una classe senza coscienza di classe: i suoi membri non condividono necessariamente le stesse condizioni di vita, ma solo lo stesso entusiasmo verso la produttività.
Affermare che facciamo parte della classe creativa e che, in quanto tale, rispondiamo allo stesso imperativo produttivo, contribuisce a realizzare il sogno di una città senza attriti, abitata da individui con attitudini e desideri leggibili e prevedibili.
Un’altra cosa che il neoliberismo cerca in tutti i modi di negare oltre alla classe, è la storia, che per un territorio significa quel complesso paesaggio di culture, tradizioni, eventi e rivendicazioni che contribuiscono a plasmare la sua identità. Nel suo The Generic City del 1995, l’architetto Rem Koolhas coglieva (seppur senza criticarlo) un importante fondamento della visione neoliberista degli spazi urbani: «the presence of history only drags down [the city’s] performance». Al contrario, Cruz nel suo saggio scrive:
«Resistere all’assimilazione borghese significa rimanere legati alle nostre origini, portare con noi le vite e le storie delle nostre famiglie, delle comunità, del nostro passato e della nostra cultura.»
La città senza storia diventa pura performance, cieca produttività, la stessa promossa da Florida sotto la bandiera della personalità e del capitale creativo. Quando si perde ogni legame con il territorio l’assimilazione è un processo che agisce in maniera rapida e indisturbata. Riconoscere una storia, invece, seppur personale, problematica e contraddittoria, rompe i cluster e le filter bubble, genera esperienze fuori dai modelli archetipici della brandizzazione urbana. Nel farlo, soprattutto, ammette la possibilità che esistenze diverse producano significati diversi sul territorio, abilita il confronto e la negoziazione di questi significati, permette al conflitto di reinserirsi nella quotidianità.
Sono tornata a vivere nel mio quartiere perché, paradossalmente, era una scelta più conveniente che restare in una zona popolare nel culmine della sua gentrificazione.
Nonostante oggi io viva nella “parte nuova” del sobborgo, la case INCIS in cui sono cresciuta e in cui mio padre, molto tempo prima di me, ha vissuto con i suoi genitori e sei fratelli, sono ancora lì, strette nell’abbraccio delle nuove costruzioni residenziali che ne circondando l’obsoleta architettura.
Ogni volta che posso, ritaglio del tempo per fare lunghe passeggiate e attraversare il quartiere per osservarne le diverse zone e riflettere su come ognuna racconti una storia diversa. È qui che ho iniziato a scrivere e dove ho imparato ad ascoltare me stessa e gli altri, più di quanto non abbia fatto quando vivevo nelle aree artistiche e underground della città. A volte litigo con qualcuno, altre mi limito a provare una silenziosa frustrazione, ma ci sono anche casi in cui trovo interlocutori inaspettati con cui confrontarmi. Il 25 aprile del 2020, mentre eravamo in pieno lockdown, c’erano solo due balconi in tutto il circondario da cui si sentiva cantare “Bella Ciao” e uno era il mio. Cosa vuol dire trovare il proprio posto in una comunità? Cosa vogliono dire diversità e inclusività in una società che ci preferisce isolati tra simili? Che ruolo ha la città nelle nostre vite a cavallo tra reale e virtuale? Cos’è un quartiere oggi? Nello scarto tra la risposta di Florida e la nostra c’è uno spazio di negoziazione ancora aperto.