Nel suo saggio del 1985 Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, il sociologo statunitense Joshua Meyrowitz definisce i media come ambienti culturali, contenitori in grado di risignificare le nostre relazioni sociali, dissolvendo i confini situazionali del tempo e dello spazio. Concentrandosi principalmente sull’influenza della radio e della televisione, Meyrowitz racconta la nascita di una nuova forma di spazio sociale, in cui la distanza fisica e il tempo diventano variabili sempre meno importanti nella costruzione identitaria e, quindi, nella formazione di relazioni. In un passaggio scrive:
«La televisione rende omogenei lo spazio e il tempo, portando con sé una sensazione di eternità e di simultaneità.»
Se lo spazio è una dimensione della percezione umana, l’ambiente mediatico opera una deformazione di questa dimensione, abbattendo confini e punti di riferimento, senza i quali l’individuo si percepisce in un continuum, eterno e simultaneo, di interazioni ed esperienze audiovisive. È ciò che provoca il collasso del contesto, la parasocialità e la dissoluzione della sfera privata. Ed è anche ciò di cui continuiamo a fare esperienza nel limbo dell’infinite scrolling di TikTok.
Come spiega questo articolo pubblicato su WIRED, infatti, TikTok amplifica gli effetti dello strumento televisivo, non tanto per la logica predatoria dei suoi algoritmi, ma per la natura del medium su cui viene fruito, lo smartphone. Così come la televisione ha stravolto il rapporto del pubblico con le immagini in movimento, che dall’ambiente ritualizzato del cinema venivano portate nella più libera e personale dimensione domestica, così la funzionalità dello scrolling nello smartphone ha attivato nuove possibilità di esperienza digitale, di cui oggi TikTok è il principale catalizzatore.
«The phone has allowed TikTok to form a deeply intimate relationship with the user’s cognition, to position itself within the borders of the extended self.»
Il flusso accelerato e privo di mediazione dei video di TikTok, insieme allo scorrimento verticale dell’esperienza digitale, operano un’ulteriore trascendenza dei confini spazio-temporali rispetto a quella analizzata da Meyrowitz, ottenendo due effetti principali. Da un lato, la percezione del mezzo come estensione fisica genera una relazione sincronica e una forte dipendenza dalla piattaforma, dall’altro la verticalizzazione dei contenti contribuisce alla perdita di una comprensione contestuale, e quindi critica, della nostra esperienza online.
Come spiega Meyrowitz, infatti, la dimensione spaziale è uno dei principali indicatori di contesto, senza il quale sarebbe difficile costruire un sistema di significati e di relazioni.
Lo spazio è l’incipit di ogni storia, è uno dei primi punti di riferimento sulla base dei quali elaboriamo la nostra identità in un rapporto di reciproca appartenenza: il nostro quartiere, la nostra città, il nostro profilo Instagram. Anche online, perimetriamo lo spazio in cui interagiamo per attribuire significati e comprendere le relazioni che sviluppiamo al suo interno.
Senza riferimenti spaziali sarebbe difficile identificarci e riconoscere una storia, personale o condivisa. Per questo, lo spazio è anche contenitore di memorie storiche e individuali.
Nell’ambito degli studi geografici e archeologici, si dice che, per comprendere un territorio, sia necessario osservarlo come un palinsesto, ossia come una di quelle pergamene manoscritte che, in età classica, venivano cancellate e riscritte per permettere il riutilizzo di quel medium prezioso. Nonostante le iscrizioni più antiche venissero raschiate via, alcune porzioni di testo risultavano ancora visibili sotto la nuova scrittura, testimoniando la coesistenza di stesure appartenenti a epoche differenti.
Camminando per le vie del centro di Roma, le stratificazioni del palinsesto territoriale generano lo stesso effetto della pergamena: rovine storiche si alternano ad abitazioni risalenti all’età repubblicana, costruzioni ottocentesche si intersecano con le più recenti edificazioni e con le attività commerciali realizzate in epoca moderna. La compresenza orizzontale di questi artefatti umani abilita il tentativo di interpretazione non solo della storia, ma anche delle relazioni e delle espressioni di potere di cui l’architettura dello spazio è testimone. Internet, oggi, nega sempre di più questa possibilità.
La verticalizzazione dei contenuti abbatte la cronologia e limita le possibilità di navigazione spaziale, ma non è solo questo il problema. Come titola un articolo su The Atlantic di qualche tempo fa: “Internet sta marcendo”. Il pezzo, infatti, spiega l’insorgere di due fenomeni di erosione che stanno caratterizzando la progressiva perdita di contenuti online: il content drifting, che avviene quando il contenuto connesso a un link è stato modificato e risulta diverso da ciò che si stava cercando, e il link rotting, ovvero il guasto di un link a seguito della cancellazione di un contenuto. In entrambi i casi, i contenuti diventano inutilizzabili e smettono di rappresentare una fonte attendibile per la costruzione di sapere online.
Senza andare troppo nello specifico della questione, questo fenomeno testimonia la crescente difficoltà di mantenere una memoria storica dello spazio digitale, tentativo reso ancora più arduo dalle dinamiche di piattaformizzazione proprietaria. È il caso della crisi dell’Internet Archive, il più importante archivio del Web, raccontata in questo articolo su il Post, che spiega come il processo di data scraping, attraverso cui le pagine web possono essere duplicate e conservate, venga reso sempre più difficile dai vincoli imposti dalle piattaforme private, tra cui figurano i social network di Meta, o dai sempre più frequenti paywall che perimetrano le possibilità di accesso a una risorsa. Per citare l’autore dell’articolo su The Atlantic, il problema della mancanza di stratificazione diventa un problema di comprensione identitaria:
«Society can’t understand itself if it can’t be honest with itself, and it can’t be honest with itself if it can only live in the present moment.»
La realtà di un Internet senza un palinsesto è la condizione di uno spazio condannato a vivere nel limbo dell’eterno e simultaneo presente, un’interfaccia costantemente aggiornata dove le relazioni perdono qualsiasi vincolo di comprensione temporale e spaziale, in un infinito scorrimento dell’esperienza digitale.
Riconoscere la presenza di un palinsesto territoriale non è importante solo in contesti densi di storia come il centro di Roma, ma anche – e direi soprattutto – in tutti luoghi di fruizione quotidiana, periferie e sobborghi inclusi, dove l’abbattimento di alcuni edifici o la rifunzionalizzazione di certi spazi esprimono la costante tensione tra i processi di dominio e i tentativi di riappropriazione dal basso.
Non c’è alcun motivo di pensare che Internet non sia suscettibile alle stesse dinamiche, nascendo in primis come un’infrastruttura fisica e sviluppandosi poi come un vero e proprio spazio virtuale. Privatizzazione, indicizzazione e fruizione verticale trasformano Internet in un cantiere in permanente ristrutturazione, dove tutto ciò che è situato all’interno dei walled garden delle piattaforme proprietarie finisce per essere perso, distrutto o rieditato secondo i nuovi paradigmi della competizione online, mentre ciò che è fuori si limita a marcire. È interessante osservare quanto, in un luogo dove la technostalgia è così imperante, sia sempre più difficile trovare traccia delle vecchie architetture in grado di informarci sui valori, i significati e le interazioni su cui si basavano i nostri primi utilizzi del Web.
Ancora più interessante, forse, è il fatto che, oggi come non mai, siamo arrivati a paragonare le forme di fruizione mediatica online a quelle del palinsesto televisivo, il primo mezzo di comunicazione ad aver operato un significativo abbattimento delle nostre percezioni spaziali e delle relazioni sociali determinate al loro interno. Mentre in archeologia, però, il concetto di palinsesto resta ancorato all’idea di una compresenza di elementi eterogenei, senza i quali sarebbe impossibile comprendere diacronicamente le relazioni all’interno di un territorio, il significato di palinsesto che si sta imponendo oggi, attraverso TikTok, è quello di un flusso indistinguibile che determina una costante precarietà di significati.
Il problema di percepirci in un continuum simultaneo, allora, potrebbe non essere solo un problema di parasocialità e di perdita della sfera privata, ma anche di erosione della consapevolezza storica. Mentre le mura dei Fori Imperiali, volute da Augusto per escludere la Suburra e i suoi abitanti dall’Impero, restano oggi un importante simbolo dei modi in cui il potere costruisce forme di dominio e di controllo attraverso gli spazi, negli ambienti online fatichiamo a tenere traccia delle espressioni di disuguaglianza incise nel palinsesto e, con queste, degli esperimenti dal basso di cui siamo così avidamente alla ricerca.
Nell’epoca della wokeness degli utenti e delle discussioni sull’empowerment dei creator, costruiamo le nostre resistenze su rovine sempre più fragili e, spesso, inesistenti. In questa mancanza di contesto, il presente diventa l’unica incisione permanente a disposizione, mentre significati e saperi condivisi vengono velocemente raschiati via da un nuovo aggiornamento, un guasto del link, l’ennesimo colpo di scrolling.
Grazie per aver letto fin qui! Anche se non le ho citate espressamente, ci sono un po’ di letture che ho tenuto in considerazione scrivendo questa newsletter:
I social network non sono morti, sono diventati la tv di Andrea Girolami sulla newsletter Scrolling Infinito
Come le piattaforme inseguono i palinsesti di Luca Barra su Link. Idee per la tv
TikTok’s Secret Sauce di Arvind Narayanan sul blog del Knight Institute della Columbia University
How TikTok is Rewriting the World di John Herrman sul New York Times
È tutto, ci sentiamo presto!