#5 Mediocrità Premium
Pensavamo di combattere il capitalismo con la mediocrità, forse ci sbagliavamo
Ciao e ben ritrovati/e!
Ho iniziato l’anno un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, ma solo perché ho deciso di inaugurare il 2023 con una decisione bella e importante, ovvero quella di tornare a essere una libera professionista.
Sono molto felice (e anche un po’ agitata) quindi se volete scrivermi per farmi un grande in bocca al lupo o per propormi qualcosa di bello da fare insieme, potete farlo qui sotto. Mi raccomando solo proposte di alto livello, come il Convegno di Studi Antropologici sulle Ragazze Gilmore o un bel Book Club sul digitale.
È tutto, buona lettura!
Il 14 novembre del 2009 era un sabato, la Luna calante faceva il suo ingresso nel segno della Bilancia e io avevo appena avuto la brillante idea di unirmi all’impressionante serpentina di persone che, sin dalle prime luci dell’alba, campeggiava davanti all’ingresso di H&M in Via del Corso, in attesa dell’apertura del negozio. L’occasione del raduno era il lancio della collezione, in edizione limitata, realizzata dal colosso del fast-fashion in collaborazione con il marchio di scarpe Jimmy Choo.
A me non erano mai interessati un granché né Jimmy Choo né l’idea di possedere un paio di stiletti firmati, ma a quei tempi l’indie sleaze aveva avuto un brutto incidente con The Fame di Lady Gaga e il semplice fatto che un prodotto di alta moda fosse temporaneamente disponibile al pubblico di massa era il perfetto trigger per la FOMO di una neo 19enne che stava crescendo a colpi di Skins e Gossip Girl.
Neanche a dirlo, l’esperienza di shopping fu traumatica, una versione all’italiana di quei video in cui la gente invade i centri commerciali in America all’apertura del Black Friday e inizia a picchiare minori e anziani per appropriarsi dell’ultimo minipimer in offerta. E infatti eccomi là, a contendermi, con coetanee e attempate, vestitini blu elettrici e pochette zebrate, affamata di nuovi outfit su cui rovesciare il terzo Negroni di turno nel tumulto claustrofobico di un club sotterraneo.
Alla fine della giornata, il bottino consisteva in poco più di un centinaio di euro spesi per la suddetta pochette, due brutti orecchini metallizzati e un paio di sandali con tacco che non trovo altri modi per descrivere se non usando l’espressione “ragni borchiati”, un concetto estetico di cui sono felice che oggi non sia sopravvissuta alcuna traccia, neanche sotto forma di aesthetic nostalgica. Quello che al tempo non sapevo, però, non era solo che acquistare un paio di ragni borchiati non avrebbe migliorato la qualità della mia vita da clubber di periferia, ma anche che la forma di rituale consumistico a cui avevo appena partecipato non era altro che una delle prime manifestazioni di un nuovo modo di esistere nel tardo capitalismo, un modo che qualche anno dopo qualcuno ha saggiamente definito premium mediocre.
Il termine premium mediocre è stato coniato nel 2017 dal blogger Venkatesh Rao. Nel lungo articolo che descrive il fenomeno, Rao scrive: «Premium mediocre is the finest bottle of wine at Olive Garden. Premium mediocre is cupcakes and froyo. Premium mediocre is “truffle” oil on anything (no actual truffles are harmed in the making of “truffle” oil), and extra-leg-room seats in Economy. Premium mediocre is cruise ships, artisan pizza, Game of Thrones, and The Bellagio. Premium mediocre is food that Instagrams better than it tastes.»
Premium mediocre è la collaborazione tra le aziende di fast-fashion e i brand di alta moda, è il panino d’autore di McDonald con Asiago DOP e Speck Alto Adige IGP, è la sneaker virtuale di Gucci. La lista potrebbe andare avanti all’infinito perché oggi tutto è premium mediocre.
Dalla recessione di fine anni 2000 ai giorni nostri, infatti, il tentativo di rendere accessibili al grande pubblico servizi e prodotti esclusivi, ha dato vita a un nuovo standard consumistico e a una cultura, introiettata e alimentata soprattutto dai Millennial, in cui la mediocrità premium ha smesso di essere una sofisticata strategia di marketing per diventare semplicemente lo stato delle cose. Come spiega Rao: «Premium mediocrity is not clueless, tasteless consumption of mediocrity under the mistaken impression that it is actual luxury consumption. Maya Millennial is aware that what she is consuming is mediocre at its core, and only “premium” in some peripheral (and importantly, cheap, such as French-for-no-reason branding) ways. But she consumes it anyway. She is aware that her consumption is tasteless, yet she pretends it is tasteful anyway.»
La mediocrità premium è la risposta adattiva che i Millennial occidentali hanno adottato nei confronti dello stato di permanente crisi della propria esistenza. Abbiamo imparato a padroneggiare l’arte del premiocre vestendone letteralmente i panni: prima l’haute couture in poliestere di H&M, poi l’elevazione dell’ordinario a status quo con il normcore, che ha suggellato il passaggio definitivo del mediocre nel regno dell’esclusività. Ancora una volta, mediocrità premium è la Boston di Birkenstock che diventa introvabile, la linea di abbigliamento limited edition di Lidl e l’intero circo degli haul di Shein su TikTok.
È proprio sulle piattaforme social che la mediocrità premium acquisisce una dimensione tutta sua. Il premiocre, infatti, è figlio della Silicon Valley, del suo impeto alla disruption, della promessa democratizzante dei nuovi media. L’idea stessa che la vita sia un processo che necessita di costante ottimizzazione (e di un ottimo storytelling) è al tempo stesso sintomo e conseguenza di un tardo capitalismo che infonde ottimismo socio-economico creando l’illusione che la possibilità di miglioramento sia sempre a portata di mano. Premium mediocre sono gli NFT, i video di meditazione #ASMR, l’instagrammabilità, la creator economy.
Il problema della premium mediocrity, però, non è solo quello di creare il miraggio di una mobilità sociale inesistente, ma è anche il fatto che, per realizzare il trucco, sfrutta una delle qualità esistenziali che fino a pochi anni fa consideravamo impermeabili al capitalismo: la mediocrità stessa. Qualche giorno fa, leggendo questo articolo su Vox che racconta come TikTok sia diventato il luogo di massima espressione e trionfo dei contenuti mediocri, mi sono ritrovata ad ammettere a me stessa che la correlazione tra mediocre e autentico ha sempre esercitato un certo fascino anche su di me, soprattutto in contrapposizione all’ideale di affermazione neoliberista.
Stare nella normalità, non eccellere in nulla in particolare, ridimensionare le proprie ambizioni, sono tutti piccoli mantra generazionali che i Millennial si sono ripetuti negli anni per affrontare il problema di diventare adulti tra una crisi finanziaria persistente e le trasformazioni di un mondo del lavoro sempre più precario e inquinato dalle logiche del mercato libero. Diventare consapevoli della propria mediocrità, coltivarla addirittura (qualunque cosa significhi), sembrava inevitabilmente la migliore forma di resistenza all’hustle culture, e forse lo è stata, almeno finché anche la mediocrità non è diventata l’ennesima condizione a cui fare l’upgrade.
Come spiega questa riflessione pubblicata sul New York Times su mediocrità e privilegio, infatti, è solo con la modernità che questo termine ha iniziato a essere utilizzato in antitesi al concetto di eccellenza, piuttosto che come sinonimo di adeguatezza. In natura, la mediocrità può addirittura rappresentare un vantaggio evolutivo quando sopravvivere richiede la capacità di adattarsi, mentre in astronomia il principio di mediocrità della Terra è un reminder della non-particolarità del nostro pianeta e della specie umana.
Da questo punto di vista, abbracciare la mediocrità significa semplicemente accettare il fatto che non siamo speciali, diversamente da quanto suggerisce l’ideale neoliberista di successo a ogni costo e la gerarchizzazione capitalistica delle esistenze. Quando il premium mediocre camuffa la mediocrità da prodotto esclusivo, l’ordinarietà della vita si trasforma in aesthetic creando l’illusione di un nuovo lifestyle a cui ambire. È così che la mediocrità diventa strumento per il consumo e perde ogni possibilità di diventare politica.
Nell’articolo su Vox che ho citato poco sopra, in realtà non si parla di resistenza al neoliberismo, ma di un altro fenomeno interessante che ha a che fare con la mediocrità online: «TikTok fame celebrates a different kind of mediocrity, though, the kind where “relatability” means adhering to the internet’s fluctuating beauty standards and approachable upper-middle-classness and never saying anything that might indicate a personality».
In questo contesto, il successo di personalità scialbe e contenuti anonimi su TikTok sembrerebbe la perfetta dimostrazione che sui social, come in natura, sopravvive chi meglio si adatta, non chi eccelle. Il declino dei social network e l’uso massiccio di algoritmi per curare i contenuti della piattaforma, a quanto pare finisce per generare il fenomeno opposto alla mediocrità premium: il mediocre premium, un processo di decadimento e normalizzazione del personal branding di cui le star di TikTok sono solo gli ultimi dei romantici. Cambiando l’ordine degli addendi, la mediocrità forse può ancora essere salvata.
Quello su cui non sono d’accordo con Rao, infatti, è l’idea che Maya Millennial e la “nuova classe della mediocrità” non siano altro che il simbolo di un ottimismo cieco nei confronti della new economy, lo stesso che è pronto a farsi instancabile ambasciatore del fake it until you make it e a credere che la scalata sociale si costruisca un panino d’autore di McDonald alla volta.
Se da un lato non sento di negare l’esistenza di questa attitudine nella mia generazione, o almeno in me (o nella me che si è presentata alle luci dell’alba davanti a H&M per acquistare delle Jimmy Choo di plastica), preferisco continuare a credere che ci sia possibilità per la mediocrità di non cedere alle lusinghe dell’ottimizzazione e, anzi, di hackerare il capitalismo riappropriandosi dei suoi spazi come le specie pioniere riescono a insediarsi sui terreni più impervi.
Forse non è così, forse il premiocre ci insegna che è successo esattamente il contrario, ma se i nuovi adepti della mediocrità premium vivranno per continuare ad assecondare l’autofiction di mercato, noi mediocri pionieri potremo almeno morire nel tentativo di opporci, con ogni probabilità, fallendo.