Ciao a tutt* 👋
Il 17 ottobre è uscito il mio saggio per la collana Quanti di Einaudi, si chiama Al centro dei desideri - Consumo, nostalgia, estetiche digitali, ne ho parlato nella scorsa newsletter e lo trovate qui 👇
Questo lavoro ha inevitabilmente aperto la strada a riflessioni e ricerche ancora in corso, spero che vi piaccia parlare di centri commerciali e immaginari del consumo perché ne avrò ancora per un po’ ❤ infatti, è proprio quello di si occupa questo numero della newsletter, buona lettura!
Il quadrante di Roma in cui vivo rappresenta l’area con la più alta densità di centri commerciali in città. Ce ne sono otto solo nel raggio di quattro chilometri dalla mia abitazione, senza contare i grandi complessi commerciali che si estendono tra il G.R.A. e il litorale, altrimenti si andrebbe oltre la decina.
Il centro commerciale più vicino a casa mia si trova ad appena quattrocentro metri: Euroma2 è la mia seconda casa, il luogo in cui si snoda la mia intera quotidianità e quella di tutto il quartiere.
Alcune mattine mi piace arrivare prima dell’apertura dei negozi, quando le uniche attività in funzione sono i bar del primo piano. È l’unico momento della giornata in cui posso attraversare il centro commerciale mentre tutto è ancora chiuso, silenzioso, fermo. Le serrande sono sigillate, le scale mobili inerti, la musica spenta. Alle dieci precise, come ogni giorno da quindici anni, le saracinesche si alzeranno in coro, mentre una voce femminile darà il consueto annuncio di apertura delle attività, augurando a tutti una buona giornata di shopping. Prima di quell’ora, però, il centro commerciale è un’altra cosa, tutto è ancora immobile. È come trovarsi nel retroscena di uno spettacolo, solo che al posto delle attrici in vestaglia e dei tecnici alle prese con i preparativi, a popolare i sontuosi corridoi deserti di Euroma2 ci sono solo lavoratori, vecchietti e solitari perditempo, come la sottoscritta.
In America, gli habitué dei centri commerciali vengono definiti mall-goers, mentre le presenze infestanti dei giovani oziosi sono etichettate con l’epiteto mall rats. Infine, ci sono i camminatori mattutini seriali, i mall walkers, una varietà di frequentatori che, da qualche anno a questa parte, sta suscitando l’interesse tanto dei dirigenti quanto dei teorici per la sua capacità di gettare luce sulle nuove pratiche di utilizzo degli spazi del consumo da parte del pubblico; pratiche che — pur mantenendo un legame con le merci — non riguardano necessariamente lo shopping.
Negli Stati Uniti, e più recentemente in Arabia Saudita, il mall walking si presenta infatti come un antidoto all’inospitalità dell’ambiente urbano, soprattutto per alcune fasce della popolazione. Anziani e persone con le più eterogenee difficoltà motorie si incontrano nei centri commerciali prima dell’orario di apertura e organizzano la loro routine sportiva all’interno degli spazi levigati, protetti e perennemente illuminati del consumo: l’appuntamento, di norma, è nell’atrio principale o nell’area ristorazione, mentre il percorso consiste sempre in andirivieni ciclici nei corridoi del mall di turno, tracciando rotte che attraversano ripetutamente gli stessi spazi fino al raggiungimento del consumo calorico desiderato. Si passa continuamente davanti alle stesse vetrine, che diventano inevitabili punti di riferimento, oltre che distrazioni magnetiche su cui poggiare lo sguardo durante la quotidiana sessione di fitness tra le merci. È un fenomeno meno recente di quanto si possa pensare: già nel 1999 il New York Times dedicava un servizio al mall walking descrivendo l’esperienza surreale di allenarsi all’interno del «luogo geometrico dell’abbondanza», come lo chiamerebbe Baudrillard:
One single circuit took me past 14 shoe stores, 38 clothing stores, about 24 places selling those cute and utterly useless objects known as ''gifts,'' 19 jewelry and cosmetics stores and 14 assorted music, cards and furnishings stores, plus no fewer than 23 establishments selling high-fat, high-calorie gastronomic treats. The shoe stores in particular weighed heavily on my mind. After four circuits, I had walked past 56 shoe stores, with enough footwear to make every Long Islander into a veritable Imelda Marcos. Only a nation of peripatetic centipedes could use up this many shoes.
Orientare la propria vita attorno a una geografia del consumo, alimentare la quotidianità con l’incessante flânerie visiva dei prodotti. Il mall è riuscito a sostituire l’ambiente urbano non solo per la sua capacità di offrire uno spazio privo di attriti, ma anche perché è il luogo dove una delle più grandi promesse della città, in quanto artefatto sociale moderno, viene mantenuta e alimentata: osservare ed essere osservati, estendere lo sguardo su un piano orizzontale ricco di stimoli visivi, usufruire illimitatamente di socializzazione e godimento estetico in un paesaggio tanto variopinto quanto coeso.
Oggi, con i centri storici fagocitati dal turismo di massa e la scomparsa di luoghi pubblici in cui radunarsi e indugiare collettivamente senza uno scopo, i centri commerciali garantiscono ancora uno spazio di osservazione, compresenza e vagabondaggio liberi. In una bellissima cronaca quotidiana della propria esperienza nel centro commerciale Les 3 Fontaines, nel piccolo comune francese di Cergy, la scrittrice Annie Ernaux racconta il ruolo giocato da grandi magazzini e superstore come moderno collante sociale:
When you think of it, there is no other space, public or private, where so many individuals so different in age, income, education, geographic and ethnic background, and personal style circulate and rub shoulders with one another. No enclosed space where people are brought into greater contact with their fellow-humans, dozens of times a year, and where each has a chance to catch a glimpse of others’ ways of living and being.
L’osservazione di Ernaux mi ricorda un’espressione che l’architetto Victor Gruen usava, verso la fine degli anni Quaranta, per descrivere i nuovi centri commerciali di cui stava curando la progettazione: «community living rooms», salotti comunitari dedicati allo svago collettivo nei sobborghi della città.
Per Gruen, quest’espressione nasceva soprattutto della necessità di incapsulare lo spirito di quella che credeva fosse una nuova forma di spazio pubblico, incarnata da architetture ibride pronte ad accogliere uno spettro di attività e di comportamenti umani motivati da ben altro che il semplice aspetto commerciale. Nonostante la metafora del salotto continui a esercitare un certo fascino sul consumatore in cerca di un luogo in cui stazionare godendo di quella peculiare forma di solitudine in mezzo alla massa, l’interesse del centro commerciale a confodersi con ambienti più aperti e transitori, come le piazze e le strade, deriva proprio da un malinteso sulla natura dei suoi ambienti: non emergenti luoghi pubblici, ma ambuigi spazi pseudo-pubblici.
Come spiega questa inchiesta del Guardian, infatti, gli spazi pseudo-pubblici sono tutti quegli ambienti che riproducono le apparenze di un luogo pubblico, trattandosi in realtà di spazi privati e, per questo, soggetti a dinamiche di esclusione, controllo e sorveglianza. Parchi e giardini recintati, grandi piazze e viali e, ovviamente, i centri commerciali, con il loro sistema di simboli e metafore che riproducono l’idea di un grande boulevard aperto a tutti, ma che non hanno nulla a che fare con le dinamiche di uno spazio veramente accessibile. È in questo sistema di simboli e metafore spaziali che si crea la comunità contemporanea: non in un salotto condiviso, ma in uno pseudiospazio che intrattiene con la dimensione pubblica un legame puramente simbolico, un’utopia immaginaria fatta di desideri effimeri e legami deboli.
La teoria dei legami deboli viene postulata per la prima volta dal sociologo Mark Granovetter nel 1973, in un saggio sulle reti sociali intitolato The Strenght of Weak Ties. Il lavoro di Granovetter, che inizialmente si concentra sul legame tra rapporti sociali e la capacità di accesso a nuove posizioni professionali, mette in luce la centralità dei legami deboli nella costruzione di un tessuto sociale eterogeneo e resiliente: mentre i legami forti ci chiudono nella nostra bolla di relazioni intime e familiari, i legami deboli — ovvero i rapporti privi di intimità tra conoscenti — consentono di entrare in contatto con persone e gruppi sociali diversi e di ampliare i nostri orizzonti, rafforzando il tessuto della comunità in senso più ampio.
Un approfondimento accademico sui legami deboli pubblicato sulla rivista del portale e-flux, osserva le relazioni superficiali studiate da Granovetter dal punto di vista dei rapporti urbani e dei social network, mostrando gli aspetti più fragili e controversi di questa teoria. Sia nel caso dello spazio urbano che di quello digitale, infatti, i legami deboli restano tali a meno che non vengano “attivati”, ovvero a meno che non ci sia la volontà di connettere gruppi diversi attraverso una scelta volontaria, che spesso implica l’avviamento di processi politici e sociali molto complessi. In poche parole, senza azione il legame debole non è altro che una relazione assente, l’immagine di uno spazio vuoto tra gruppi isolati.
È esattamente ciò che osserviamo nelle dinamiche che affliggono i social media contemporanei e il meccanismo alla base delle comunità cullate dal consumo: il centro commerciale è il mass-medium urbano per eccellenza, una piattaforma che connette superficialmente la varietà umana che compone il tessuto sociale ai margini della città. Senza attivazione non siamo altro che flâneur tra le merci, camminatori seriali che percorrono con inerzia lo stesso sentiero costeggiato dalle superfici specchiate delle vetrine commerciali. Un popolo di legami deboli sopiti o, come direbbe Annie Ernaux, «una comunità del desiderio, non dell’azione».
Cose belle che ho letto questa settimana e piccoli aggiornamenti:
Su Link - Idee per la tv trovate un articolo che ho scritto a cui tengo molto: Essere una Sad Girl Autumn parla di come, sullo sfondo della crisi climatica, le rappresentazioni digitali delle atmosfere stagionali si siano molteplicate, dando vita a nuove vibe e routine, ma anche a celebrazioni audiovisive di revival cinematografici anni Novanta e a un processo di girlification inesauribile del web. La performance stagionale, pare, va di pari passo a quella di genere: dalla Hot Girl Summer alla Christian Girl Autumn e ora lei, la Sad Girl Autumn, con tutto il suo portato un po’ witchcore un po’ Gilmore Girls. Insomma basta sennò non lo leggete.
The Junk is Winning su The Atlantic
I ristoranti stanno cambiando nome per ingannare l’algoritmo di Google Maps
How streaming ate itself su The New States Man
«The only real service we can do for our reality and our aura, then, is so contrary to our popular conception of success, celebrity, longevity, and the higher ambition to transcend the mortality that has dogged us since our conception, that it may seem disrespectful to say that coming to terms with the transience of our beings means looking, with excitement, beyond the ambition of documentation, and to the pure reality of being absent, unknown, and ultimately forgotten». Qui.
Questo podcast su meme e architettura
È tutto, alla prossima! 👋