Ciao a tutt* 👋
è passato un po’ di tempo dall’ultima volta! Sono felicissima di riprendere a scrivere questa newsletter, ma prima di iniziare volevo dirvi che martedì 17 ottobre uscirà un saggio che ho scritto per i Quanti di Einaudi.
Si chiama Al centro dei desideri - Consumo, nostalgia, estetiche digitali ed è un’esplorazione personale all’interno degli immaginari del consumo: dagli spazi pianificati dei centri commerciali alle estetiche digitali sottoculturali. Dentro ci sono i centri commerciali anni Novanta (per chi è di Roma, I Granai <3), ma anche la storia di due architetti americani che hanno trasformato la progettazione del mall grazie ai loro sogni di un consumo oltre lo shopping: comunitario, esperienziale, da subito nostalgico di qualcosa che abbiamo perso nel corso della modernità e che ancora, irrimediabilmente, cerchiamo di recuperare attraverso la partecipazione ai simboli identitari della merce.
Poi c’è il web con le sue estetiche digitali e la sua liminalità, le fandom e la mallsoft, e infine un po’ di intellettualismi riferimenti culturali della giovinezza: il centro commerciale di Avril Lavigne, di Dawson’s Creek, di What Women Want. Ovviamente cito Baudrillard, ma finalmente non c’è traccia di Byung-Chul Han. Comunque: è breve, è digitale, è economico.
Lo preordinate qui!
Ora me ne vado, ciao!
In un passaggio del suo manuale di scrittura, Steering the Craft, Ursula K. Le Guin scrive: «writer and reader collaborate in world-making». Il processo di costruzione di un mondo fantastico è un’attività collaborativa, un mutuo sforzo verso la fabbricazione di nuovi immaginari. Vuol dire anche che il worldmaking, o worldbuilding, è un processo incompiuto per natura: i creatori e i visitatori dei mondi alternativi rielaborano costantemente significati, ruoli e narrazioni influenzando le traiettorie evolutive degli universi con cui entrano a contatto. Il pubblico non si rende solo disponibile alla finzione, ma diventa co-creatore. Trasforma spontaneamente la materia dei nuovi micro-cosmi immaginari, spesso finendo per innescare reazioni profonde e moti sotterranei che riverberano negli anni.
Nel suo blog, il celebre autore delle Cronache del ghiaccio e del fuoco George R. R. Martin, propone una distinzione tra due categorie di scrittori (o costruttori di mondi): gli architetti e i giardinieri. Gli architetti prediligono narrazioni chiuse e ben definite, in cui la pianificazione è essenziale per evitare deviazioni indesiderate, mentre i giardinieri si lasciano guidare dal mondo che stanno creando, rendendolo una materia viva e permeabile a cambiamenti, influenze improvvise e intuizioni repentine.
Costruire giardini digitali è il claim di una piattaforma emergente che ho scoperto di recente: si chiama Sane, si presenta come un «web integrato per le idee» e promette di contribuire alla nascita di nuove oasi virtuali, in aperto contrasto con i walled garden delle social media company dominanti. What makes a digital space feel like a place? chiede una descrizione in homepage. La risposta non tarda ad arrivare: secondo i creatori di Sane, per essere considerato un luogo intimo e familiare, lo spazio digitale deve trasformarsi in un ambiente fertile e malleabile, dentro cui poter condividere e sperimentare idee imperfette, appena tratteggiate. È a questo che dovrebbero servire i giardini digitali, a offrire spazi di «curatela del proprio angolo di Internet», luoghi in cui i molteplici immaginari del web si combinano per costruire tanti piccoli sottomondi olistici. Sul sito si legge:
The last decade has been about creating and uploading as much information as possible. The challenge now is to connect that information, and help people make sense of it all.
Anche l’attribuzione di senso è un processo collaborativo. Online, gli utenti si riuniscono attorno a nicchie di senso da cui nascono i nuovi micro-mondi partecipati: le aesthetics e le nuove sottoculture, i meme e gli immaginari condivisi su Reddit. Non è un caso, allora, che sempre più applicazioni nascano dal tentativo di imbrigliare questa materia fertile che, fuori dai confini di Meta e TikTok, diventa sempre più difficile da tracciare e trasformare in operazioni di marketing sensate. Come Sane, i nuovi servizi digitali imitano il modello di Pinterest svecchiandone l’estetica cheugy: le interfacce si tingono di sfumature YK2 aggiornate per i (presunti) gusti della Gen Z (Holosexual?) oppure si presentano in tutta la loro disinvoltura minimalista per trasmettere l’idea di uno spazio grezzo e disimpegnato, lo-fi.
È il caso di Landing e Are.na, due piattaforme in cui è possibile realizzare moodboard e collezioni, condividere ispirazioni, far prosperare la propria creatività. Landing è particolarmente interessante: si tratta di uno strano mix tra Instagram, Polyvore (R.I.P.) e Canva in cui è possibile fare amicizia ed esplorare le creazioni degli utenti, perlopiù collage digitali e vision board che conservano lo spirito amatoriale dei primi spazi di espressione online.
Sulla barra di ricerca una frase recita: Search the cosmos… from the vibes to brands. Mondi, vibrazioni e marchi: sono gli ingredienti essenziali del nuovo web post-trend, in cui la monocultura mainstream svanisce per lasciare spazio a un reticolo di simboli, atmosfere emotive e universi immaginari che convivono, trasformandosi ed evolvendosi rapidamente, nello spazio virtuale.
La triangolazione tra questi elementi non è casuale: sempre più marchi stanno adottando il worldbuilding per costruire la propria presenza online. Un articolo sul New York Times documenta il passaggio nell’industria creativa dalla costruzione di moodboard alla costruzione di mondi per aumentare l’efficacia del proprio impatto sul pubblico. Una creative director spiega:
A mood board is an idea. A world is a place that triggers all my senses. How does a place smell? What sounds do I hear? What does it feel like when I touch it? A world is alive.
Oggi la sopravvivenza all’interno di un web composto da piattaforme social sempre più vuote e noiose dipende in buona misura dalla capacità di costruire mondi in cui credere, partecipare, evadere e ridiscutere la realtà. Mentre gli utenti, però, stanno coltivando organicamente i loro giardini, i brand cercano di svecchiare le proprie identità coordinate e di costruire nuove architetture finzionali in cui accogliere il nostro intimo desiderio di identità, appartenenza e comunità.
«Our inherent communalism and dreaminess» afferma a un certo punto l’autrice e linguista americana Amanda Montell durante una puntata del podcast anything goes with emma chamberlain dedicata al suo saggio del 2021 Cultish: The Language of Fanaticism. Nel libro, Montell esplora come il linguaggio delle sette religiose sia permeato nella cultura occidentale contemporanea finendo per avvicinare sempre di più la dimensione semantica e psicologica del culto a quella degli interessi quotidiani. La ricerca di una comunità e, contemporaneamente, di un sistema di credenze e di pratiche in grado di farci evadere dall’ordinario sono gli elementi che contribuiscono a trasformare i nostri giardini in luoghi di culto, una curiosità o una predisposizione in un lifestyle sponsorizzato dal brand di turno.
Quando Montell descrive l’influenza che i culti contemporanei, inclusi quelli della moda, della bellezza e dell’industria wellness, esercitano sulla nostra disponibilità a cedere alla finzione, lo fa coniando espressioni che combinano la terminologia del design a quella della spiritualità, come se ci trovassimo di fronte a una nuova evoluzione del personal branding: «Identity template», dice ad esempio, per spiegare come i culti forniscano un sistema coerente a cui far aderire la propria identità, oppure «socio-spiritual portfolio», per descrivere la somma degli interessi e degli hobby con cui ci presentiamo in società e che i culti promettono di implementare con l’ingresso nel loro mondo.
In un passaggio molto bello del suo saggio Exit Reality, Valentina Tanni riflette sulle dinamiche che accompagnano la recente diffusione di estetiche e meme che giocano con la dimensione spiritualistica e sovrannaturale, scrivendo:
Non si tratta soltanto di evadere in un mondo fantastico, cambiare linea temporale o crearsi degli amici immaginari, quanto piuttosto di mettersi alla ricerca – anche se con modalità che a volte possono apparire ingenue o improbabili – di nuovi strumenti per rapportarsi con una realtà che sembra non possedere più caratteri di stabilità e permanenza. Una realtà che fatichiamo sempre più a distinguere dalla finzione, che spesso nasce già finzionale, e che ci appare ogni giorno più incontrollabile.
Diventare permeabili nell’instabilità. Il web sta cambiando, non sappiamo ancora bene in quale direzione. Un aspetto inevitabile della transizione, però, è il brutale senso di solitudine. In Città sola Olivia Laing dedica un capitolo alla vita e all’arte di Henry Darger, un solitario custode di Chicago la cui attività artistica segreta venne svelata solo dopo il suo decesso, a seguito del ritrovamento, all’interno della sua abitazione, di centinaia di illustrazioni surreali e di un manoscritto di 15mila pagine intitolato The Story of the Vivian Girls, in What is Known as the Realms of the Unreal, of the Glandeco-Angelinian War Storm Caused by the Child Slave Rebellion. Le sue opere erano piene di giardini.
Nel libro, Laing descrive Darger come un artista e un “costruttore di mondi”, un uomo isolato e un accumulatore seriale:
C’erano migliaia di immagini così: cartelle su cartelle piene di sagome ritagliate da libri da colorare, fumetti, cartoni animati, giornali, pubblicità e riviste. Un amore ossessivo per la cultura popolare che mi ha fatto di nuovo pensare a Warhol, quell’accumulo e quell’utilizzo di cose ordinare (…)
La storia di Darger è unica nel suo genere, ma la solitudine dell’accumulo e della ripetizione è un’esperienza di ossessione alienata con cui stiamo imparando a convivere quotidianamente. E se le moodboard, i collage, le compulsive collezioni di immagini mondane accumulate nel web non fossero altro che un sintomo della progressiva perdita di realtà? Ci aggrappiamo ai simboli di un mondo che ci sta sfuggendo tra le mani, pratichiamo il worldbuilding non per evadere, ma per cercare ancora un senso.
Uno dei miei mondi letterari preferiti, invece, l’ha creato la scrittrice francese Christelle Dabos dieci anni fa. La saga de L’Attraversaspecchi racconta un mondo esploso, un universo in cui un evento distruttivo, la Lacerazione, ha scisso la terra in tanti territori fluttuanti isolati, le arche. Ogni arca ha il proprio culto, i suoi poteri, uno spirito di famiglia. Nessuno ricorda il mondo prima della frammentazione, nessuno conosce i motivi della Lacerazione.
Per fortuna, noi siamo ancora nel vecchio mondo, ma è difficile dire per quanto.