Rieccoci.
Prima di lasciarvi in pace ho una piccola domanda per voi:
Grazie per l’attenzione, buona lettura!
Prosegue dalla prima parte…
La mia wishlist su Vinted è uno specchio delle estetiche che ho assimilato nel corso degli anni, una miscellanea di prodotti apparentemente diversi tra loro, che suggeriscono in realtà un’idea di femminilità molto simile: ingenua e immatura, dotata di una sensualità inconsapevole e di un portamento disinvolto e naturale.
Ogni prodotto rappresenta un piccolo frammento di questa indole ideale: ci sono i trench coat dai colori tenui e le camicie oversize à la French Girl, la ragazza dai capelli leggermente scompigliati e il rossetto rosso promossa da brand come Rouge e Sezanne, che cammina spedita per le strade della città con una baguette e un mazzo di fiori sempre sotto braccio; ci sono i maxi abiti scamiciati e i maglioni con colletto da eterna bambina prodotti da marchi come Tiny Big Sister e Kina & Tam, che si propongono di riportare un senso di gioia infantile nella moda adulta («we only ask that you wear you Kina & Tam with an 8-year old carefree kind of confidence!»); ci sono, infine, le gonne a ruota e le bluse a collo alto da casa nella prateria di Batsheva e Christy Dawn, che esprimono una nuova visione della femminilità attraverso una moda romantica e in sintonia con la natura.
Nel suo saggio Dress Code: Unlocking Fashion from the New Look to Millennial Pink Véronique Hyland definisce l’insieme di queste tendenze con l’espressione High Femininity 2.0. Riprendendo le critiche mosse dalla giornalista Susan Faludi negli anni Novanta, che etichettava come High Femininity il ritorno di una certa moda punitiva contraddistinta dalla celebrazione di una femminilità casta e puerile, Hyland osserva il revival di questo fenomeno culturale anche ai giorni nostri, mettendo in luce il lato oscuro di un immaginario stilistico che veste il tradizionalismo di tonalità morbide e stampe floreali.
«Traditional femininity has been repackaged as cool, as chill, as “woke”» scrive Hyland, sottolineando come la moda di oggi rischi di ripetere il destino del Millennial Pink: un’espressione visiva nostalgica che, invece di sovvertire le istanze conservatrici da cui nasce, finisce per diventare il loro stesso strumento di rebranding, così come il rosa pastello più amato dai social si è trasformato nell’emblema del “femminismo” neoliberista targato #girlboss e nell’ingrediente segreto del successo di alcune teorie del complotto, come testimonia la strategia del pastel Qanon.
Estendendo lo sguardo di Hyland alle nuove tendenze che popolano il web, non è difficile riconoscere tracce di High Femininity 2.0. anche fuori dal guardaroba. La girlification di internet, ovvero la nuova ondata di contenuti virali basata sulla costruzione di nuove estetiche femminili, è il perfetto esempio di come l’infantilizzazione di genere sia diventata un tema ricorrente, oltre che un inesauribile fonte di tendenze.
C’è la girl math e la girl dinner, il lazy girl job e la corporate girlie, l’hot girl walk e un’impressionante declinazione della girliness nel regno vegetale, dalla tomato girl all’onion girl e la broccoli girl. A differenza della moda criticata da Hyland, il punto di questi trend non è la fantasia di una femminilità da ricercare nelle boulangerie parigine o nel prairecore ma la riduzione dell’identità di genere femminile a un universo semplicistico, fatto soprattutto di aesthetics, routine di benessere e nuovi prodotti da acquistare. «It’s no preparation, just vibes» spiega la podcaster Mina Le durante la puntata del suo programma High Brow dedicata al fascino della girl dinner e al fenomeno della girlification. È proprio così: i video raccontano la vita come un gioco da prendere poco sul serio, improvvisando pasti con ingredienti pronti, assemblati in maniera casuale, e trasformando ogni aspetto della quotidianità in un contenuto per TikTok, dalla sveglia all’alba (le 5am girlie) al momento di andare a dormire (grwm for bed).
La Girl-assaince, come la definiscono le reporter Elena Cavender e Chase DiBenedetto in un articolo su Mashable, è diventato un fenomeno divisivo: da una parte c’è chi sostene che porti con sé l’idea di una donna libera dai suoi doveri tradizionali, spesso legati all’avanzamento dell’età biologica. Su internet puoi smettere di essere una moglie o una madre per essere semplicemente una girlie. D’altra parte, però, c’è chi rivendica l’importanza di non essere ridotte a un’identità infantile e, soprattutto, ricorda come questa nuova ondata di contenuti allontanino il discorso femminista da temi politici e sociali molto più importanti della scelta tra l’essere una ragazza pomodoro o una ragazza broccolo.
L’ambuigità della girlification è in realtà il sintomo di un altro fenomeno che caratterizza i social media contemporanei: la decentralizzazione dei simboli culturali e la definitiva morte dei trend digitali. Come racconta Rebecca Jennings in un celebre approfondimento su Vox, online i trend e i discorsi culturali si susseguono e si frammentano a una velocità talmente elevata che è sempre più difficile che delle micro-rappresentazioni entrino a far parte di un discorso culturale più complesso.
The tendency to register and categorize things, whether it be one’s identity, body type, or aesthetic preferences, is a natural part of online life. People have a penchant for naming elusive digital phenomena, but TikTok has only accelerated the use of cutesy aesthetic nomenclature. Anything that’s vaguely popular online must be defined or decoded — and ultimately, reduced to a bundle of marketable vibes with a kitschy label.
Da questo punto di vista, è inutile cercare di dare un senso all’improvvisa diffusione del “web delle ragazze”: girl- è semplicemente diventato l’ennesimo prefisso a uso e consumo delle migliaia di utenti che cercano di schematizzare la propria vita online, trasformandola in aesthetics pronte a essere inserite nella nuova tassonomia umana di TikTok.
Nella moda accade la stessa cosa. In un essay pubblicato sulla rivista n+1, il teorico dei media Rob Horning analizza il rapporto tra i social media e il fast-fashion, osservando l’influenza che entrambi i mercati hanno avuto nel trasformare i consumatori in artisti del bricolage, insaziabili ricompositori di stili, contenuti e identità. Così come le piattaforme digitali si presentano come mezzi in grado di “democratizzare” i canali di comunicazione, invitando gli utenti a partecipare attraverso contenuti sempre nuovi e stimolanti, così il fast-fashion è un mass-medium visivo, che incoraggia a sperimentare nuove espressioni individuali accendendo ininterrottamente il desiderio di novità dei consumatori attraverso collezioni settimanali e infinite possibilità di combinazione.
We become the meaning makers, enchanting ordinary cardigans and anoraks with a symbolic significance that has only a tenuous relationship to the material item.
Un tempo, le sottoculture emergevano come espressione di una specifica provenienza geografica o di appartenenza a una classe sociale, mentre oggi nascono dalle infinite possibilità di combinazione del fast-fashion e sono indissolubilmente legate al mezzo digitale da cui provengono, tanto che spesso ne assumono il nome: e-girl, Tumblr girls, ragazza VSCO. Lo stesso vale per gli indumenti virali, identificabili solo citando la piattaforma che ne ha decretato il successo: il cappotto di Amazon, il vestito di Instagram e, ovviamente, la borsa di TikTok.
Secondo Hyland, la moda è l’ultima frontiera della cultura umana in cui si può ancora provare un senso di partecipazione a un fenomeno collettivo, anche se in maniera effimera e provvisoria. Forse è così, la moda è diventata un infinito gioco, un playground in cui torniamo a essere adolescenti in preda al desiderio di espressione. Ma se è vero che il nostro abbigliamento riflette la società in cui viviamo, mi pare che la moda sia anche il luogo in cui ogni simbolo identitario diventa un bene di scarsità.
Più una categoria sociale o una dimensione della vita moderna tende a scomparire, più viene riappropriata e idealizzata dalla moda: la classe contadina e quella operaia, l’infanzia e l’adolescenza, persino la normalità, la possibilità di vestirsi in modo sobrio e mediocre, resa ormai irrealizzabile dal normcore. Man mano che perdiamo i nostri punti di riferimento, cerchiamo di recuperare il loro involucro trasformandolo in un nuovo look o in un contenuto virale.
Un articolo su Nylon ci informa che la moda del momento è l’errand-core, la tendenza a esibire le buste della spesa come fossero un accessorio di alta moda. Leggendo la notizia, non ho potuto fare a meno di pensare alla sfilata al supermercato di Karl Lagerfeld in cui le modelle facevano finta di fare la spesa portando al braccio sacchetti di carta e borse di Chanel avvolte nel cellophane. Quanto è difficile rassegnarsi alla monotonia della vita.