#28 Il business del terzo spazio
Terzi spazi surrogati, la nascita del quarto spazio e la scomparsa di una casa fuori da casa
in copertina: @nabulbae
Il quartiere in cui vivo è un’azienda. Eur S.p.a. è una società pubblica controllata dal Ministero dell’economia e delle finanze e da Roma Capitale, con un patrimonio che include i principali edifici storici del quartiere, i poli culturali e tutte le aree verdi contenute nel cosiddetto “pentagono” dell’Esposizione Universale E42, dal parco degli Eucalipti al Lago Centrale. In poche parole, il mio quartiere è per definizione uno spazio semi-pubblico, ovvero un luogo che pur assicurando l’apertura dei suoi spazi alla fruizione comunitaria, è gestito e mantenuto da una società che – in qualsiasi momento – può decidere di operare secondo le regole di mercato, scegliendo ad esempio di vendere o affittare alcune aree a scopi commerciali e di regolarne l’accesso in base a interessi che non coincidono con quelli del pubblico che usa quotidianamente quello spazio.
In linea teorica, il mio quartiere rappresenta, strutturalmente, tutto ciò che un terzo spazio non dovrebbe essere.
Teorizzato per la prima volta nel 1989 dal sociologoco Ray Oldenburg nel suo saggio The Great Good Place, il terzo spazio viene presentato come l’elemento che distingue tutti quei luoghi in cui l’individuo può socializzare spontaneamente al di fuori del proprio ambiente domestico (il primo spazio) e di quello professionale (il secondo spazio).
Secondo Oldenburg, il concetto di terzo spazio include luoghi pubblici quali parchi, centri sociali, biblioteche comunali e mercati, oltre a piccoli esercizi commerciali come caffè, pub, librerie e teatri.
Ciò che distingue un terzo spazio, però, non è semplicemente la sua accessibilità al pubblico, ma il tipo di atmosfera e di partecipazione che è in grado di attivare: sono spazi terzi tutti quelli che favoriscono un arricchimento sia personale che collettivo, in grado di assicurare un coinvolgimento inclusivo senza barriere economiche o vincoli di affiliazione e di rappresentare un territorio neutrale capace di accogliere persone profondamente diverse tra loro.
Sono ambienti dove la conversazione e il confronto verbale animano la socialità, e dove ci si può sentire a proprio agio anche circondati da sconosciuti. Oldenburg sintetizza l’immagine del terzo spazio utilizzando la metafora di una “casa fuori da casa” (home away from home), attingendo alle riflessioni dello psicologo David Seamon per delineare le principali caratteristiche necessarie a trasmettere un sentimento di familiarità domestica (homeness) alla comunità: la capacità di infondere un senso di radicamento e appartenenza, la creazione di un luogo confortevole in cui sentirsi a proprio agio e, infine, la possibilità di offrire un rifugio per il ristoro spirituale. Il terzo spazio è il luogo della kinship, di una rete relazionale mutevole e cangiante, in costante espansione.
Eppure, il terzo spazio oggi è anche una tendenza di marketing. Secondo l’ultimo report dell’agenzia di trend forecasting WGSN, l’allineamento di marchi e servizi con la logica del terzo spazio può favorire il dialogo con un target di utenti in cerca di un antidoto all’alienazione urbana e digitale. All’interno dello studio, eventi di fitness e benessere negli spazi verdi della città o piccoli workshop in negozio vengono presentati come possibili esperienze da vendere come costruzioni (brandizzate) di spazi terzi, pur tradendo i principi fondamentali che, secondo Oldenburg, ne costituiscono l’essenza.
La capitalizzazione del terzo spazio è particolarmente evidente nel settore turistico: home away from home è diventato sinonimo di una dimensione vacanziera in grado di coniugare elementi di esotismo a una routine quotidiana studiata per immergere gli ospiti in un flusso senza tempo sapientemente punteggiato di piccoli momenti di novità e stupore. In questi contesti, la collettività diventa un accessorio dell’esperienza personale, l’elemento esotico, la rassicurazione che stiamo conducendo la nostra esistenza accompagnati dal rumore di fondo della presenza altrui. Tanto basta per non chiamarla solitudine.
Il reincanto, ovvero il sentimento di rinnovata meraviglia nel quotidiano che proprio lo scorso anno dominava i trend di marketing, torna in una versione meno eclatante e spettacolare: quest’anno, l’antidoto all’annichilimento e al profondo isolamento dell’uomo occidentale del XXI secolo è il “business del terzo spazio”. In un panorama socio-economico che ha relativizzato il lusso e le esperienze esclusive, non resta che provare a impacchettare come nuove merci gli elementi perduti di un’esperienza moderna che appartiene al passato. Le comunità e lo spazio in cui coltivarle sono sicuramente tra queste.
Il web ha giocato un ruolo fondamentale nella diluizione dei terzi spazi. Proprio come gli spazi semi-pubblici, le esperienze turistiche e i servizi che vendono la possibilità di “stabilire nuove connessioni significative”, il web di oggi è un terzo spazio surrogato, un luogo in cui gli interessi privati commerciali si camuffano per trarre vantaggio dalla socialità generata al suo interno.
Eppure, in questi sedicenti terzi spazi molti di noi, inclusa la sottoscritta, ci sono cresciuti – ed è qui che diventa difficile distinguere tra la nostalgia di una comunità inclusiva, diversa e familiare al tempo stesso, come quelle ritratte da Oldenburg, e quella nei confronti di una comunità fittizia, in quanto già contaminata dall’ombra del commercio e della sorveglianza, anche se il vecchio web ha rappresentato, seppur per un breve periodo di tempo, un terzo spazio autentico.
È proprio questa nostalgia a far sì che il business del terzo spazio si diffonda anche online, dove una nuova ondata di startup offre spazi digitali e applicazioni per trovare il proprio terzo spazio con un semplice click: la lista include app per fare nuove amicizie o per partecipare a eventi e attività insieme ad altre persone, ma anche un’app per turisti che vogliono fare esperienze da local e local che vogliono fare esperienze da turisti, una per organizzare i propri contatti e le proprie relazioni in base al contesto di appartenenza e una che promette di reinventare il concetto di vicinato.
Il terzo spazio è morto, viva il terzo spazio? Forse. La realtà è che si tratta di una dimensione che potremmo aver perso per sempre. Come osserva il professore di geografia economica Arnault Morrison in un suo studio, nelle società dominate dall’economia dell’informazione l’ibridazione dei luoghi ha trasformato il terzo spazio in una nuova dimensione: il quarto spazio.
Fanno parte del quarto spazio tutti quei luoghi in grado di offrire le caratteristiche e le funzionalità del primo, del secondo e del terzo spazio e le loro interazioni: come spiega Morrison, si tratta di progetti abitativi, professionali e di socialità che si traducono in spazi di coliving, coworking e comingling. L’esempio di quarto spazio riportato dallo studioso è lo Stream Building di Parigi, un polo relazionale e produttivo che offre micro-alloggi, aree di lavoro comune, spazi per il networking e per la ristorazione nello stesso edificio circolare, all’interno del quale le attività sono scrupolosamente divise in categorie: Stream Stay, Stream Work, Stream Play e Stream Eat.
La formula del quarto spazio è quindi quella dell’ibridazione e, al tempo stesso, dell’iperspecializzazione: mentre il terzo spazio offriva un luogo “altro” dove rifugiarsi e coltivare relazioni estese senza un fine ultimo che non fosse quello del puro intrattenimento collettivo, il quarto spazio è la dimensione in cui ogni confine personale e professionale viene abbattuto senza essere liberato: tutti gli spazi si concentrano in un unico contenitore in cui la socialità è il collante fittizio che abilita il controllo dell’esperienza. Da questo punto di vista, il quarto spazio è ovunque: nelle case che usiamo come uffici, nel networking sulle piattaforme social, nelle esperienze e negli spazi di socialità nelle metropoli contemporanee che ci restituiscono la sicurezza di una personalizzazione standardizzata.
Il quarto spazio riflette la cultura stessa del XXI secolo: la compenetrazione tra dimensione relazionale e quella produttiva, la sharing economy, l’eterna surrogazione del terzo spazio, il quartiere-azienda, la gentrificazione come estetica. Sulla mappa, la strada per casa è puntellata di work hub, innovation center, coffice e business park. Se esiste ancora un terzo spazio, non possiamo trovarlo sul navigatore, e tantomeno attraverso un’applicazione. Forse all’inizio dovremo capire da soli come ritrovare la strada, sperando che – in qualche modo – ci ricongiunga in un luogo dove, almeno per poco, anche saltuariamente, possiamo riposarci un po’. Senza nostalgie, gerarchie e performance. Senza quell’insopportabile sensazione, confortevole e terrificante al tempo stesso, di essere sempre soli in mezzo agli altri.
Se siete a Roma, lunedì 20 alle 17.30 torno a parlare del mio piccolo saggio pubblicato per i Quanti di Einaudi, Al centro dei desideri. Consumo, nostalgia, estetica digitali con il collettivo Inventare il futuro. Tutte le info qui 👇
Alla prossima!
Annotazioni molto puntuali e documentate, che però in parte non mi trovano d'accordo, in quanto praticamente la totalità dei terzi spazi "reali", ossia in grado di determinare effettivamente dei legami dotati di una certa profondità, risultano spazi, se non deliberatamente privati, a pagamento. Ricordo le amicizie fatte durante l'infanzia in alberghi puntualmente rinnovati ogni estate, oppure quelle relative ai residence montani, anch'essi inclusi nel novero delle seconde case. Può accadere di incontrare qualcuno in piazza, certo, ma non è la stessa cosa di incontrarlo all'università, che si paga, o in qualche accademia o corso, che si pagano, e via discorrendo. Il solo vero alveo del terzo spazio realmente pubblico rimane la scuola, nello specifico quella della giovinezza, che dalle elementari (io le chiamo ancora così) si spingono fino ai licei. Quello è effettivamente un terzo spazio puro e incontaminato.
grazie, acuta riflessione. Aggiungo che la logica del quarto spazio è quella tipica dei mondi della c.d. "innovazione sociale" e può essere vissuta come totalizzante. Comporta dei vantaggi "relazionali", ma soffoca e genera burn-out. Ne ho scritto qui: https://www.amazon.it/Innovatori-sociali-sindrome-prometeo-nellItalia/dp/8815280278
Inoltre, è cruciale ribadire che la contrazione dello spazio pubblico non riguarda solo la vita urbana, ma anche lo spazio delle classi dirigenti e lo spazio dei luoghi policentrici. Ne ho scritto qui di recente: https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858152539